Guglielmo I detto il Malo

Re di Sicilia.

di Alberto Gentile

 

Antica incisione che raffigura Guglielmo I

Quando il 26 febbraio del 1154 Re Ruggero II d’Altavilla rese santamente l’anima a Dio, gli subentrò Guglielmo (1120-1166): il quarto figlio nato dalla sua unione con di Elvira di Castiglia (circa 1100-1135), dato che gli eredi d’età maggiore erano già tutti defunti.

Nell’immediato, la successione avvenne senza particolari traumi politici e sociali dato che il nuovo, giovane monarca, esercitava già da circa tre anni la coreggenza a fianco del padre.

Come uomo, come governante e come condottiero, Guglielmo I è un personaggio controverso, sul quale gli storici non sono ancora del tutto concordi ma...

...chi era, in realtà, Guglielmo I detto il Malo ?

Guglielmo I era cresciuto ed era stato educato nell’ambiente mediterraneo di Palermo, subendo l’influenza della cultura araba che ancora pervadeva l’intera isola. Il fatto di essere cresciuto in una Corte importante, tra le più brillanti d’Europa, aveva condizionato il suo carattere conducendolo, in età adulta, a godere il lusso dei suoi palazzi più che ad occuparsi dello Stato. Alcuni affermavano che preferiva affidare la gestione del regno ad un primo ministro, essendo già troppo impegnato a godersi la tranquillità della corte e le imprese militari che maggiormente gradiva.

Di conseguenza, nel suo entourage erano evidenti le caratteristiche proprie degli ambienti arabi, dove era presente un ostentato lusso orientale; anzi, i suoi più aperti detrattori, e non solo questi, mormoravano che avesse addirittura un vero e proprio harem, provocando il disappunto dei più intransigenti ambienti cristiani. A conferma indiretta di queste illazioni, il viaggiatore arabo Ibn Giubayr giunse ad affermare che «le ancelle e le concubine che il Re tiene a palazzo sono tutte musulmane».

Lo storico inglese David Abulafia, nel suo noto libro Federico II Un imperatore medievale, pag. 28, così descrive Guglielmo I: «Guglielmo I (detto il Malo), successore di Ruggero, tra­scorse la maggior parte del suo periodo di regno in Palermo, e la maggior parte delle sue giornate - come sussurravano le malelingue - nei giardini e negli harem del suo palazzo.  La presenza fisica del sovrano in Sicilia con­senti perciò l'evolversi di un sistema amministrativo alquanto diverso, im­postato su fondamenta ad un tempo arabe e bizantine».

Con questo spirito, Guglielmo I avviò la costruzione dello splendido palazzo che ancora oggi ammiriamo, La Zisa, completato dal suo successore.

EL AZIZ in arabo significa nobile, splendido; e certo così l’edificio doveva apparire ai viaggiatori e alle umili popolazioni locali. Guglielmo lo concepì per essere allo stesso tempo stesso un luogo di delizie ed espressione della potenza regale. Ampi spazi erano destinati ai sollazzi del sovrano nei magnifici giardini detti anticamente di Genoard, il Paradiso sulla terra e dove, nelle ore più fresche, i cortigiani si aggiravano tra aranci, cedri e limoni.

Guglielmo sposò Margherita, figlia di Garcia IV Ramirez di Navarra, che gli diede quattro figli: Ruggero duca di Abulia, Roberto, Guglielmo che sarà suo successore, ed Enrico, principe di Capua.

Palermo, palazzo de La Zisa, in corso di restauro, anno 2006.

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Tutto sommato, Guglielmo I non può essere considerato un cattivo regnante, nonostante sia noto alla storia come il Malo, contrapposto al figlio e successore Guglielmo II detto il Buono: un appellativo, giova ricordarlo, che gli verrà attribuito solo nel XIV, molto probabilmente dallo Pseudo Ugo Falcando: Storia del Regno di Sicilia (1550).

Al contrario, in relazione ai tempi, fu certamente un sovrano prudente anche se, durante il suo regno, non mancarono le sommosse che stroncò energicamente.

 

Un difficile regno.

Ad onta della tranquilla successione al trono, il regno di Guglielmo I si apriva in un momento assai critico per la vita dello Stato, gravata da particolari criticità interne ed esterne.

All’interno si assisteva al crescente affermarsi di un forte partito ecclesiastico, alimentato dall’arrivo da tutta Europa di alti prelati e personaggi dell’amministrazione, assieme a numerosi insediamenti monastici. Ciò comportava la diminuzione della tolleranza religiosa verso i Musulmani e i Bizantini che era stata fino a quel momento il collante delle varie etnie sempre in stato di potenziale conflitto.

Sul versante esterno Manuele I Comneno, incoronato Imperatore d’Oriente nel 1143, si stava organizzando in quegli anni per tentare la riconquista dell’Italia normanna. Il progetto era ambizioso e, come immediata conseguenza, contribuiva ad alimentare le tensioni all’interno dal Regno dove i feudatari vedevano nel nuovo Re un elemento di discontinuità che poteva ridurre i loro benefici a favore delle classi produttive emergenti.

Come se ciò non fosse bastato, c’erano poi le crescenti pretese egemoniche della Chiesa e dell’Impero germanico, guidati rispettivamente dall’intransigente Pontefice inglese Adriano IV e da Federico I il Barbarossa, sceso per la prima volta in Italia proprio nel 1154 con l’obiettivo dichiarato di normalizzare una situazione resa ormai rovente.

Certo il giovane monarca si trovava a dover fronteggiare problemi più grandi di lui; tanto più che, fin dai primi interventi pubblici, pur confermando formalmente la tradizionale linea di governo tracciata dal padre, non aveva potuto celare le proprie simpatie per la borghesia, sempre più attiva e combattiva.  

C’erano le premesse per giungere rapidamente ad una situazione di generalizzata conflittualità; e la prima occasione giunse di lì a poco, con l’invasione del Regno da parte dell’esercito bizantino che nell’occasione aveva trovato innaturale alleanza nell’apparato bellico pontificio.

 

1155-56: L’invasione del Regno

ad opera dell'esercito bizantino e di quello pontificio.

 

L’acme della tensione provocata dalle mire espansionistiche di Manuele I Comneno si ebbe nel 1155 quando Guglielmo, dopo aver nominato Maione da Bari[1] ammiratus ammiratorum, – una sorta di primo ministro – cadde in una prolungata malattia, durante la quale si diffuse addirittura la falsa notizia della sua morte.

Era il momento opportuno ai Bizantini per aggredire il Regno; tanto più che l’iniziativa avrebbe trovato terreno favorevole tra i gran parte dei Conti che consideravano i nuovi possibili padroni preferibili ad un Re che aveva chiaramente dimostrato di voler limitare il loro diritti.

Ma l’illusione di Manuele I Comneno e dei suoi durò poco; fino a quando Guglielmo, ristabilitosi completamente dalla malattia che lo aveva colto, ritornò nell’agone politico e militare più forte e motivato di prima, pronto ad organizzare la controffensiva.

 

Le fasi dell’invasione e le linee di difesa.

L'esercito bizantino, comandato da Michele Paleologo e da Giovanni Doukas, aveva iniziato l’invasione del Regno partendo da Ancona, dove era stata prevista una linea di difesa – la prima, fra le tante disseminate in varie aree strategiche dall’accorto Ruggero II – posta nell’insediamento più settentrionale: la Contea di Aprutium, istituita nel 1140.

Qui, alla fine del 1155, il Governatore Conte Roberto de Aprutio combatté strenuamente per garantire l’integrità dei domini normanni. Non così si comportarono parecchi Conti i quali, capeggiati da Roberto III di Loritello, imparentato con la Casa regnante, si ribellarono al legittimo Sovrano, avviando apertamente la defezione.

Il conte Roberto de Aprutio fu tra i pochi Conti rimasti fedeli alla Casa d’Altavilla e con ogni probabilità morì nel tentativo, disperato e vano, di non cedere Teramo alle truppe di invasione. Alcune fonti sostengono che Loritello fu cacciato con l’apporto dei Salernitani[2].

A sud della contea di Aprutium una seconda linea di difesa era affidata al conte Boemondo di Manoppello che presidiava le valli del Pescara, del Foro e del Sangro; quest'ultima in collaborazione con il conte di Molise, che possedeva Castel del Giudice e Capracotta.

Secondo quanto riferisce il Chronicon Casauriense, il conte di Manoppello non intervenne per ostacolare  l'invasione bizantina. Per questo, alla fine del 1156, fu imprigionato in Palermo da Re Guglielmo e fu liberato solo dopo alcuni mesi per morire in Calabria, a Tarsia in Val di Grati, suo paese di origine.

Prima che l’esercito invasore potesse giungere in Capitanata, una terza ed ultima linea di difesa era stata posta nel Molise dove la resistenza durò poco. Il conte di Molise Ugo II infatti, chiamato a presidiare le valli del Trigno, del Biferno e del Fortore, aderendo alla ribellione capeggiata da Roberto III di Loritello, lasciò impunemente passare l'esercito bizantino.

Sul confine nord-occidentale del Regno la difesa armata era affidata al conte di Fondi, che aveva il compito di intervenire nella bassa valle del Liri e nella valle del Garigliano. Ma anche qui Riccardo De Aquila, conte di Fondi, lasciò passare l'esercito pontificio senza opporre resistenza: un tradimento inaudito che, a fine avventura, lo costringerà a morire in esilio, forse nei pressi Roma, accanto a coloro che lo avevano prezzolato.

L’estremo intervento difensivo predisposto da Re Ruggero era rappresentato dall'arrivo dell'esercito regio; o, in alternativa, dalla leva generale di tutti gli uomini liberi. Guglielmo non nutriva dubbi sulla necessità di decretare la massima mobilitazione: ma nel frattempo erano ancora i nobili locali a dover intervenire, se onesti e fedeli, in difesa del Regno.

Quando nel 1156 l'esercito invasore, passato il fiume Fortore, dilagò in Puglia occupando – come affermano fonti bizantini – ben quaranta castelli, il Conte di Andria Riccardo de Lingèvres, un cavaliere originario della Normandia, fu chiamato a svolgere un ruolo importantissimo nella difesa militare dell'Apulia. Per bloccare possibili invasioni dal mare, egli dovette creare una lunghissima barriera protettiva che andava dall’Adriatico allo Ionio. Alla fine, dopo una lotta impari e sanguinosa, combattuta con tutte le sue forze, morì da eroe sotto le mura di Andria.

Fu proprio il suo sacrificio, unito a quello precedente del conte de Aprutio, a rallentare l’invasione e a consentire l’intervento dell'esercito regio malgrado la ribellione dei conti. Il vicecancelliere Ascletino, a capo delle truppe regolari, ebbe il tempo di giungere in Puglia e di ingaggiare le battaglie decisive.

Parallelamente, il Re allertò tutte le forze di popolo disponibili, a cominciare da quelle della penisola Salentina non ancora caduta nelle mani bizantine. Fu bandita così la leva nomine proelii: la leva generale di tutti gli uomini liberi, chiamati al difesa del Regno.

 

L’assedio e la battaglia di Brindisi.

I coscritti furono posti agli ordini del connestabile Ruggero di Fleming[3] che, sulle prime, tentò senza successo di opporsi all’avanzata nel Salento dell'esercito greco comandato, dopo la morte di Michele Paleologo, dal solo Giovanni Doukas.

Così, il 14 aprile l’esercito invasore si trovò alle porte di Brindisi, pronto a conquistarla, inferendo ai Normanni un colpo forse decisivo. Ma le mura che doveva superare, fortificate all'inizio dell'XI secolo, si dimostravano solidissime; per cui i condottieri, in luogo di utilizzare le tradizionali macchine da guerra, preferirono porre l’assedio, facendo la città segno di un fittissimo lancio di pietre.

Si trattò di un micidiale errore strategico? Certo i tempi lunghi richiesti dall’operazione consentirono a Re Guglielmo di raggiungere personalmente la città a capo del suo grande esercito e di prendere alle spalle gli assalitori. La battaglia si protrasse diversi giorni, con enormi perdite umane da ambo le parti. Finché i Brindisini – militari e civili, uomini e donne – usciti dalla città, parteciparono all’accerchiamento degli assalitori,  contribuendo alla chiara vittoria delle armi normanne.

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A conclusione della dolorosa avventura, restava il fatto che i nobili del Regno, nonostante fossero doppiamente legati al Re dalla fedeltà vassallatica e dai vincoli di sangue, si erano nella maggioranza dimostrati dei vili traditori; avevano consentito agli invasori di violare i sacri confini normanni!

Re Guglielmo allora, constatata la scarsa affidabilità della classe feudale, non esitò a perfezionare il sistema difensivo del Regno ideato dal padre.  E decretò che, alle prime difficoltà provocate dai conti, sarebbe intervenuto l’esercito regio, opportunamente potenziato e organizzato.

La vittoria di Brindisi entrò negli annali del Regno di Sicilia come un grande successo del popolo e della monarchia.

Papa Adriano IV.

Da allora, Papa Adriano IV comprese che era conveniente negoziare con i Normanni anziché combatterli; e con il trattato di Benevento del 18 giugno 1156, rinnovò a Guglielmo il mandato a governare il Regno inclusa Capua e Napoli. Guglielmo giurò fedeltà al Papa ricevendo, analogamente a quanto era avvenuto per Ruggero nel 1239, l’investitura con tre vessilli [4]

Nel 1157 Guglielmo, forte del successo ottenuto a Brindisi, inviò nel mare Egeo il viceammiraglio Stefano – fratello di Maione di Bari suo primo ministro – al comando di una flotta di 140 navi che si scontrò con l’armata bizantina capeggiata da Costantino Angelo, zio dell’Imperatore. Le forze bizantine uscirono sconfitte; molte navi greche furono date alle fiamme, mentre quelle siciliane si ritirarono con numerosi importanti prigionieri. 

Con questo gesto, il Re normanno intendeva compiere l’estrema vendetta nei confronti del Basileus, che nel 1158 fu costretto a firmare una pace trentennale e a riconoscere i diritti degli Altavilla sui territori italiani una volta appartenuti ai Bizantini.

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Ristabilitasi la situazione continentale e quella siciliana, le vicende fin qui narrate non furono immuni da conseguenze per il futuro normanno nel bacino del Mediterraneo.

La dinastia musulmana berbera degli Almohadi, che già dominava il Marocco, l’Algeria e parte della Spagna, intendeva unificare il Nordafrica sotto il suo potere; e mise in discussione la tutela dei Normanni, iniziando con la riconquista delle loro piazzeforti.

Iniziò così un periodo di contenziosi e di guerre, inevitabilmente terminato con la vittoria delle preponderanti armi africane. L’ultimo baluardo, Mahddiyya, cadrà in gennaio 1160, concludendo il periodo del Mediterraneo normanno.

 

Messina - Moneta aurea, Tarì di Guglielmo I, 1155 d.C. 549 dell'Egira.

 

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La perdita dei territori d’Africa accentuò lo scontento dei nobili, che attribuirono al detestato primo ministro Maione il mancato efficiente intervento nella zona, mentre questi asseriva che le scelte strategiche errate erano state imposto dal Re.

Le reazioni dei contestatori più accesi condussero ad aperti contrasti, alcuni feudatari calabresi ricorsero ad atteggiamenti di manifesta disobbedienza.

Nelle manovre delle parti fu coinvolto tale Matteo Bonello: un nobile originario di Caccamo, attivo nella politica governativa e per lungo tempo arbitro o semplice maneggione tra le opposte fazioni in lotta. Mentre i nobili ribelli si prodigavano per convincerlo a schierarsi contro Maione, questi, per tenerlo legato a sé, gli prometteva in moglie la propria figlia e gli conferiva il delicato incarico di sedare gli animi dei più facinorosi; il tutto con l’unica certa conseguenza di confondere ulteriormente la già ingarbugliata situazione.

Né sapremo forse mai quanto il Bonello sia stato uno scaltro doppiogiochista, piuttosto che un arrivista ingannato da personaggi più astuti di lui. Resta il fatto che l’ambiguo signore apparve ai contemporanei come l’astuto organizzatore di parecchie azioni difficilmente interpretabili.  

Gli episodi criminosi si succedettero con impressionante rapidità. Ad aprire le ostilità fu proprio Matteo Bonello che il 10 novembre 1160, con altri congiurati, attirò in un agguato il Maione  e lo uccise.

Re Guglielmo fu tentato di reagire al delitto con accanimento, ma alla fine fu convinto dai consiglieri più moderati a perdonare i congiurati. Alcuni di questi, fiduciosi, restarono nei loro possedimenti; altri uscirono dal regno, chi tenendosi prossimo ai confini, chi allontanandosi fino a Gerusalemme, rifugio in quel tempo di parecchi nobili avventurieri o disperati.  

Nel frattempo i baroni organizzarono una congiura contro lo stesso Re, per costringerlo ad abdicare in favore del figlio. Mentre Matteo Bonello era assente da Palermo, nobili provocarono dei moti popolari; e il  9 marzo 1161, dopo aver catturato ed imprigionato Guglielmo nel suo palazzo, portarono l’infante Ruggero III per le vie della città in sella ad un cavallo, presentandolo come il nuovo Re. 

Nella confusione generale che si era creata, ci fu chi approfittò per sfogare la propria intolleranza verso le comunità di cittadini musulmani e greci; i loro quartieri, negozi e fondachi furono distrutti, con ulteriore peggioramento del già precario ordine pubblico. 

I rivoltosi non mancarono di saccheggiare il palazzo di Corte e i principali uffici dell’amministrazione regia; andarono bruciati molti documenti tra i quali i defectari feudali ed i terrorum feudorumque distinctiones ritus et instituta Curiae, vale a dire l’intero catasto demaniale. Il popolo liberò il Re solo su intervento del clero, interessato a non destabilizzare ulteriormente l’area; ma durante le sommosse fu drammaticamente ucciso Ruggero, il piccolo erede al trono.

Reintegrato nella sua dignità, Re Guglielmo incaricò il Protonotario Matteo d’Ajello di compilare un nuovo registro dei feudatari del Regno e promise nuovamente clemenza a tutti i congiurati. Ma in seguito scatenò da par suo una micidiale vendetta. Il Bonello fu catturato con un agguato e rinchiuso nelle carceri, dove subirà la condanna riservata ai regicidi: sarà barbaramente ucciso, dopo essere stato accecato e sottoposto a tremende torture. 

Successivamente, Guglielmo si dedicò a punire le comunità di terraferma che si erano sollevate contro di lui. Ridotte all’obbedienza le città e i feudatari ribelli della Calabria e della Puglia, arrivò in Campania; ma rinunciò ad attaccare Salerno a causa di una forte tempesta, e da qui fece ritorno in Sicilia. 

Nell’ottobre 1163 Federico I il Barbarossa, trovandosi in Italia, ideò di rinvigorire e di utilizzare a proprio vantaggio la rivolta feudale scoppiata contro Guglielmo I. L’iniziativa non ebbe però seguito, perché i suoi  consiglieri militari giudicarono troppo rischiosa l’invasione del Regno normanno.

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Duomo di Monreale, il sarcofago che conserva le spoglie mortali di Guglielmo I

Guglielmo I morì il 7 maggio del 1166 per complicazioni da dissenteria: un male diffuso nelle condizioni igieniche medievali, ma, soprattutto quando riguardava un illustre personaggio, un sintomo che lasciava sempre il dubbio di un avvelenamento. Le sue spoglie mortali riposano nel mausoleo all’interno del Duomo di Monreale.

Gli successe il figlio Guglielmo II che aveva solo dodici anni, incoronato con grande pompa nel duomo di Palermo. A causa della giovanissima età, la reggenza fu assunta dalla madre, Margherita di Navarra, la quale, preoccupata per gravità della situazione e per i complotti sempre più frequenti, chiamò in suo aiuto il cugino, Stefano di Rouen, conte di Perche. Questi fu nominato prima cancelliere poi arcivescovo di Palermo; ma ben presto, sentendosi circondato da una crescente corrente ostilità, si ritirerà in Terra Santa, un ambiente più confacente alle sue attitudini.

 

La morte di Guglielmo descritta da Romualdo II Guarna medico e vescovo:

Romualdo II Guarna fu chiamato alla corte di Palermo per curare il re, suo nipote. Ma nulla poté contro l’ ineluttabile fato. Lui stesso ci ha tramandato:

«In quel tempo re Guglielmo fece innalzare presso Palermo un palazzo abbastanza alto, costruito con ammirevole abilità tecnica, che chiamò Sisa, lo circondò di bei frutteti e di ameni giardini e lo rese piacevole con diverse fontane e peschiere. Il sovrano verso la Quaresima cominciò ad essere disturbato dalla dissenteria, malattia che per molto tempo non rivelò, ma a metà Quaresima, poiché il male aumentava ed egli credeva di dover morire,fece penitenza e si confessò, liberò alcuni carcerati, condonò l’esazione di denaro che aveva imposto alla Puglia e fece testamento. In esso nominò erede di tutto il regno il figlio maggiore Guglielmo, confermò all’altro figlio Enrico il principato di Capua, che gli aveva concesso,lasciò molto denaro da spendere per la salvezza della sua anima e ordinò che la regina Margherita sua moglie fosse tutrice e governatrice di tutto il regno e dei suoi figli. Infine dispose che Riccardo, eletto vescovo siracusano, e Matteo, maestro dei suoi notai, uomini senza dubbio esperti nel diritto, saggi e dotati di discrezione, fossero consiglieri e avessero familiarità con sua moglie e con i suoi figli. Poiché il male diveniva più insistente, ordinò che venisse convocato Romualdo arcivescovo salernitano, che era molto esperto nell’arte della medicina. Egli, giungendo da lui verso Pasqua, fu accolto con onore e gli prescrisse molti rimedi salutari. Tuttavia il sovrano, confidando nell’autorevolezza del suo ingegno, usava solo i medicamenti che gli sembravano opportuni. Perciò avvenne che il sabato precedente l’ottava di Pasqua, lo assalì la febbre emitritea ed intensificandosi la dissenteria, egli morì e fu sepolto nella cappella di San Pietro nel suo palazzo. Re Guglielmo (I) morì a 46 anni, nell’anno 1166, indizione 14, il settimo giorno del mese di maggio, circa alle ore 15, dopo aver regnato con suo padre e poi da solo per 15 anni e 10 mesi".

 

Bibliografia:

·         Errico Cuozzo, Quei maledetti Normanni, Cavalieri e organizzazione militare nel Mezzogiorno normanno, Napoli, 1989

·         David Abulafia, Federico II. Un imperatore medievale, Enaudi, Torino, 1993.

·         J. M. Martin, Errico Cuozzo, Federico II Le tre capitali del regno Palermo - Foggia - Napoli, Procaccini Editore, Napoli, 1995.

·         Hubert Houben, Ruggero II di Sicilia, Un sovrano tra Oriente e Occidente, Editori Laterza, 1999.  

·         Hubert Houben, Normanni tra Nord e Sud. Immigrazione e acculturazione nel Medioevo, Di Renzo Editore, Roma 2003

·         Errico Cuozzo; Federico II di Svevia e il regnum siciliae, lezioni;  Gentile Editore Salerno.

·         E. Cuozzo, Normanni e Svevi nel Mezzogiorno d’Italia.

·         Matteo Camera; Memorie Storico-Diplomatiche dell’antica Città e Ducato di Amalfi; Centro di Cultura e Storia amalfitani

·         Schola Salernitana, Studi e Testi; Romualdo II Guarna, Chronicon, a cura di Cinzia Sonetti; Avagliano editore.

·         Astrid Filangieri, Romualdo II Guarna, http://www.ilportaledelsud.org/romualdo.htm   

·         Astrid Filangieri, Matteo d’Aiello, http://www.ilportaledelsud.org/matteo_aiello.htm

 


[1] Maione da Bari, uno dei burocrati di palazzo che già al tempo di Ruggero II aveva raggiunto i più alti gradi dell'amministrazione, era un uomo di umili origini, che favorì la borghesia artigianale e mercantile a discapito della nobiltà e dei grandi proprietari terrieri. Alcuni cronisti sostengono che Maione avesse accumulato grandi ricchezze e che il suo agire era considerato conseguenza del suo odio per i nobili.

[2] Va ricordato che la città di Salerno si era mantenuta quasi invariabilmente fedele alla dinastia normanna fin dai tempi di Ruggero II.

[3] Ruggero di Fleming era un feudatario di origine fiamminga, i cui avi erano giunti da tempo nell'Italia meridionale. Tra il 1094 ed il 1096 Guidelmus Flammengus aveva occupato la carica di catapano in Bari. Ora Ruggero era feudatario di Palo del Colle, in Taranto, e di Grumo Appula, oltre a ricoprire la carica di giustiziere e connestabile nella penisola Salentina.

[4] Investitura con tre vessilli - era un atto simbolico: i vessilli consegnati indicavano i domini, in questo caso uno per la Sicilia, uno per il ducato di Puglia e il terzo per il principato di Capua.

Copyright ©2007Alberto Gentile

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