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Da «La Crusca per voi»

Creato il: 27/11/2003 alle 23.12.27

Messaggio

Da «La Crusca per voi»
Ebbene, caro Enrico, credo di sì. Trascrivo qui l’integralità dell’articolo del professor Francesco Sabatini apparso in “La Crusca per voi” (n. 23, ottobre 2001), sperando che la magistrale dimostrazione del presidente dell’Accademia giovi a tutti e plachi gli animi. Cordiali saluti.

GLI
EURO E LE LINGUE

Sono arrivate e continuano ad arrivare all’Accademia centinaia di richieste di chiarimento sulla forma del plurale italiano di
euro: gli euro o gli euri? Con la nuova moneta veramente alle porte, la domanda se la sono posta forse tutti gli Italiani. L’Accademia ha oscillato nel prendere posizione, ha preso tempo: ha dovuto documentarsi sulle vicende della parola e anche sull’aspetto visivo dell’oggetto materiale che le corrisponde. Se n’è discusso in una riunione del “Centro di Consulenza sulla Lingua Italiana Contemporanea” (CLIC) che si è costituito in Accademia nel gennaio di quest’anno. Su questa base forniamo ai lettori una risposta, la più argomentata possibile, perché il nostro interlocutore segua con noi innanzitutto un ragionamento, che spesso si rivela più complesso del previsto. Come i nostri lettori sanno, per giudicare dei fatti di lingua non basta rifarsi alle regole della pura grammatica, ossia al “meccanismo interno” del sistema linguistico: occorre conoscere anche i “meccanismi della comunicazione”, che sono altra cosa, perché tengono conto anche di circostanze extralinguistiche.

Sul caso di
euro l’opinione che, dopo ampio dibattito, si è formata in Accademia, è la seguente: il plurale ufficiale, in lingua italiana, è invariabile, e quindi si dovrà dire un euro, due euro e così via, fino a tanti euro.

Perché questa presa di posizione, nonostante la tendenza spontanea a usare il plurale in -i per un nome maschile in
-o? Esponiamo le ragioni in tre punti.

1. Partiamo dalla storia della parola, com’è stata ricostruita con precisa documentazione da Massimo Fanfani (in “Belfagor” del 31 gennaio 2000 e nel primo numero di “Lingua nostra” del 2002) e come ci è stata illustrata a voce dal Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, all’epoca protagonista dell’evento come nostro ministro del Tesoro.
Il nome della moneta unica europea, materializzatasi ora per la prima volta in banconote e pezzi metallici, è nato definitivamente il 15 dicembre 1995, dopo una lunga stagione di attese e dopo una finale, breve ma forte, contesa tra gli Stati europei. «Un nome per la moneta unica esisteva già dal 1979, ed era
ECU, una sigla che stava per “European Currency Unit” e sulla quale fino allora nessuno aveva sollevato obiezioni» (Fanfani, cit.). Ma la sigla coincideva con una parola francese (écu ‘scudo’) e questo non piaceva ad altri Paesi. Avvicinandosi l’entrata in circolazione della moneta europea, da parte tedesca e britannica si insistette per darle un nome vero. Dopo una serie di proposte rimbalzate da un “vertice” di ministri all’altro (Lussemburgo, Valencia), a Madrid, il 15 dicembre del ’95, fu accettata la proposta tedesca di introdurre il nome euro, da usare al maschile in quelle lingue che hanno questo genere per i nomi. Il termine è estratto dal nome dell’Europa, com’è ovvio, ma non è ricavato da nessun composto con euro- (del tipo euromonete o Euromoney, finora inesistenti).

2. Veniamo ai risvolti propriamente linguistici di questa scelta. La questione va collegata, però, anche agli aspetti iconografici della moneta come oggetto che circolerà nelle nostre mani.
La questione del plurale della nuova parola emerse subito. La decisione, anche qui, venne dall’alto, in maniera però un po’ asimmetrica.
Da una parte fu deciso che la moneta, nella sua materiale esistenza, avrebbe portato iscritto il nome
euro invariabile anche al plurale, dal momento che essa avrebbe dovuto circolare, identica e pienamente leggibile, in tutti i Paesi dell’Unione (quelli che via via l’avrebbero accettata). E così è stato. La banconota è infatti assolutamente identica per tutti in entrambe le sue facce; la moneta metallica (in tagli da 2 euro, 1 euro e 50, 20, 10, 5, 2 e 1 centesimi di euro) ha una faccia comune, dove compare sempre la parola invariabile euro, e una faccia nazionale, che reca solo immagini simboliche (per l’Italia, dal profilo di Dante fino al prospetto del castello svevo di Castel del Monte) e la data di emissione.
D’altra parte, una direttiva della Comunità, del 26 ottobre 1998, ha stabilito che per alcune lingue, e cioè per l’inglese, l’italiano e il tedesco, la parola resti ufficialmente invariabile al plurale, mentre per altre segua la morfologia specifica (francese
les euros, spagnolo los euros, finlandese eurot, svedese eurorna, ecc.).
Per la verità, non si comprende la ragione di questa asimmetria, che è tale non solo nel trattamento delle diverse lingue, ma tra l’uso invariabile della parola sulle monete e quello variabile nella restante comunicazione ufficiale, parlata e scritta, di talune lingue.

3. Limitiamoci al caso italiano ed esaminiamolo per nostro conto. L’adesione all’uso invariabile nella nostra lingua si fonda su due buone ragioni.
La prima è che l’indispensabile unicità della forma della parola sulle monete deve fare, e finirà col fare, da punto di riferimento anche per l’uso comune, parlato e scritto. Questo potrebbe accadere anche in quegli ambiti nazionali nei quali è stata autorizzata la forma flessa.
La seconda è che nella nostra lingua esistono vari nomi maschili invariabili al plurale, non solo tra quelli monosillabici
(il re / i re) o in –a (il sosia / i sosia), ma anche tra quello con singolare in –o: come video e audio, parole comunissime (entrate in italiano nel 1953, direttamente dall’inglese, anche se risalenti al latino). Anche queste non sono nate per accorciamento di altre parole, non sono cioè prefissoidi (del tipo frigo da frigo-rifero), ma sono, come euro, vere parole autonome.
La morfologia naturale della nostra lingua porta, è vero, a flettere i nomi, e quindi a farci dire, spontaneamente,
l’euro / gli euri, sulla scia di dollaro / dollari, marco / marchi, ecc. E tuttavia, bisogna avvertire la novità della parola e della cosa insieme. Se non riteniamo che sia un eccessivo sforzo di fantasia, dovremmo abituarci a sentire euro come parola dotata di una sua particolare fisionomia, portatrice di una semantica che quasi la isola nel contesto morfosintattico: perché usare l’euro sarà davvero un atto del tutto nuovo. Avendolo in mano, dovremmo sentire che esso è un mezzo che ci lega fortemente ad altri popoli, ci rende ancor più cittadini d’Europa, cioè un po’ diversi da quelli che eravamo fino a ieri.
Euro è dunque una parola nuova, che non è di nessuna lingua in particolare, ma di tutte. Salutiamola, allora, come la prima parola di una lingua europea non nazionale.

Una variazione, tuttavia, c’è, davanti ai nostri occhi. Sulle banconote la parola
euro è scritta due volte, in caratteri latini e in caratteri greci: è una necessità pratica, introdotta per rispettare la tradizione grafica di uno dei Paesi dell’Unione. Ma viene ad essere, di fatto, anche un efficacissimo richiamo alle due civiltà, la latina e la greca, che sono alla base dell’Europa moderna.

Autore : Marco1971 - Email : olgs_30@hotmail.com
Inviato il : 27/11/2003 alle 23.12.27


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