Cristoforo Colombo

 

Lettera ai Reali di Spagna

Relazione sul suo primo viaggio

Traduzione dal latino del Dott. GIOVANNI VACCARI

 

 

 Edizione elettronica di riferimento

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Epistola Christofori Colom: cui etas nostra multum debet , de Insulis Indie supra Gangem nuper inuentis . perquerendas octauo antea mense auspiciis et ere inuictissemos Fernandi et Helisabet Hispaniae regum missus fuerat : ad magnificum dominum Gabrielem Sanchis eorundem serenissimos Regum Thesaurarium missa : quam nobilis ac litteratus vir Leander de Cosco ab Hispano idiomate in latinum conuertit tertio kals Maii .M.cccc.xciii pontificatus Alexandri Sexti Anno primo .

 

Il papa Alessandro sesto Rodrigo Borgia) fu in effetti eletto papa nella notte fra il 10 e l?11 agosto 1492, nello stesso periodo in cui Colombo iniziava il suo primo viaggio. Questa la lettera che Giuliano Dati tenne presente per la sua traduzione in ottave, alla quale aggiunge sugli indigeni dati che circolavano negli ambienti di corte, non solo in Spagna ma anche a Firenze e a Roma.

 

 

Lettera in cui Cristoforo Colombo, molto benemerito dellet?nostra, descrive le isole delle Indie oltre il Gange, di recente scoperte, dove fu inviato il 3 agosto 1492 sotto gli auspici e col denaro degli invittissimi Ferdinando ed Elisabetta, Reali di Spagna; e da lui indirizzata allillustre Don Gabriele Sanchis, tesoriere dei suddetti Serenissimi Re, tradotta dalla lingua spagnuola nella latina per opera del nobiluomo e letterato Leandro De Cosco il 30 aprile 1493, primo anno del pontificato di Alessandro VI.

 

 

Poi che so di doverti esser grato per aver io condotto a compimento la mia impresa, ho risoluto di scriverti per informarti di tutto ciò che feci e scopersi in questo mio viaggio. Dopo 33 giorni dacchè partii da Cadice, giunsi al mare delle Indie, dove trovai molte isole assai popolate, delle quali, fatto il bando in nome del felicissimo nostro Re e spiegate le bandiere, nessuno opponendovisi, presi possesso. Alla prima diedi il nome del nostro divin Salvatore, con l’aiuto del quale giungemmo a questa ed alle altre tutte. Quella che gl’indigeni chiamano Guanahani e ciascuna delle altre io chiamai con nome nuovo: cioè l’una, isola di Santa Maria della Concezione; Fernandina l’altra; e l’altra, Isabella, e l’altra ancora, Giovanna; e così volli che fossero dagli altri chiamate.

Come approdammo dapprima a quell’isola che testè dissi da me chiamata Giovanna, avanzai alquanto lungo il lido verso occidente. Poichè la vidi grandissima, non avendovi trovato limite alcuno, tanto da crederla non già un’isola, ma una provincia continentale del Catai, non vedendo alcun castello o città situati ne’ confini marittimi, fuorchè alcuni villaggi e poderi rustici, con gli abitanti de’ quali m’era impossibile parlare, dandosi essi alla fuga non appena ci vedevano, proseguii sperando di trovare qualche città o villaggio.

Finalmente vedendo che per quanto ci si avanzasse nulla di nuovo appariva, e la via ci portava a nord io stesso, desiderando allontanarmi poichè la bruma gravava su quelle Terre e s’aveva in animo di volgere a sud e nemmeno spiravano favorevoli i venti desiderati, risolsi di attendere altri avvenimenti. E così retrocedendo tornai ad un porto che avevo notato, dove feci sbarcare due uomini de’ nostri che andassero a cercar se mai vi fosse qualche città ed un re in quella provincia. Essi camminarono per tre giorni e trovarono numerosi popoli ed abitazioni, ma piccole queste, e quelli senza alcun governo, onde ritornarono sui loro passi.

Frattanto alcuni Indiani che avevo preso in quel medesimo luogo ci avevano informato esservi pure in que’ paraggi un’isola, e così mossi verso oriente sempre lungo il lido, facendo 322 miglia, fin dove si vedono l’estremità dell’isola stessa. Di qui scorsi ad oriente un’altra isola distante 54 miglia dalla Giovanna e la chiamai subito la Spagnola. A quella mi diressi, quasi a nord, come verso la Giovanna, per 564 miglia. Quella detta Giovanna e le altre isole nel medesimo luogo sono fertilissime. Essa è circondata da molti porti larghi e sicuri come non vidi mai in altri luoghi. Molti fiumi grandi e salubri vi scorrono nel mezzo e vi sorgono monti altissimi. Tutte queste isole sono amenissime e di varia forma; piene d’una gran varietà d’alberi che s’elevano a grandi altezze e che non credo mai privi di foglie. Io le vidi così verzicanti e ridenti come suol esser la Spagna nel mese di maggio: alcune tutte in fiore, altre ricche di frutta, altre sfoggianti le loro particolari qualità naturali. Mentre io stesso camminavo attraversandole gorgheggiavano i rosignoli e uccelli numerosi e varii nel mese di novembre.

Si trovano inoltre in detta isola Giovanna sette ed otto specie di palme notevoli per altezza e per bellezza e vi abbondano altresì tutti gli altri alberi le erbe ed i frutti. Vi sono meravigliose pinete, campi e prati vastissimi; varii sono gli uccelli, varie le qualità di mele, varii i metalli, solo vi manca il ferro. In quella poi che dissi aver chiamato la Spagnuola ameni ed alti sono i monti, vasti i villaggi, i boschi; i campi feracissimi di seminati e pasture e con aree adatte a fabbricarvi edifici. V’ha in quest’isola copia di bellissimi utili e salubri fiumi e così pure d’uomini, che non può credere se non chi ha veduto. In questa gli alberi, i pascoli e i frutti assai differiscono da quelli che si vedono nell’isola Giovanna.

Aggiungasi che la Spagnuola abbonda di diverse specie d’aromi di oro e di metalli; che gli abitanti di essa e altresì di tutte quelle che io vidi e conosco, così dell’uno come dell’altro sesso, vanno sempre nudi come son nati, fuorché alcune femmine le quali si coprono le pudende con una foglia o una fronda o un velo di seta, ch’esse stesse all’uopo si apprestano. Come dissi più sopra mancano di ogni qualità di ferro; mancano di armi che sono a loro quasi ignote, né a queste san adatti, non per la deformità del corpo, essendo anzi molto ben formati, ma perché timidi e paurosi: così in luogo di armi portano delle canne seccate al sole, nelle cui radici infiggono un’asta di legno secco dalla punta acuminata; nè osano sempre servirsene. Però che spesso avvenne che io mandassi due o tre de’ miei in alcuni villaggi per parlare con gli abitanti, e ne uscisse una folta schiera d’Indiani, la quale, al solo vedere i nostri avvicinarsi, fuggiva rapidissimamente, non curandosi il padre dei figli né questi di quello. E ciò non perché ad alcuno di loro fosse fatto alcun danno od ingiuria; ché anzi dovunque approdai, a quelli con cui mi fu dato parlare largii tutto ciò che aveva panno e molte altre cose, gratuitamente; ma solo perché son di natura timidi e paurosi. Del resto, quando si vedono sicuri, deposto ogni timore, sono molto semplici e di buona fede e liberalissimi di tutto quel che posseggono: a chi ne lo richiegga nessuno nega ciò che ha, che anzi essi stessi ci invitano a chiedere: professano grande amore verso tutti; per oggetti dappoco ne danno altri di gran valore, paghi d’ogni piccola cosa e anche di niente. Io stesso proibii di dar loro oggetti piccoli e di niun valore, come frammenti di piatti o di cristalli, e così chiodi coltelli, quantunque se potevano averli sembrava loro di posseder le cose più belle del mondo.

Accadde che un marinaio avesse avuto in cambio di un coltello tanto peso d’oro quanto ve n’ha in tre monete d’oro; e così altri per altre cose di minor prezzo e davan sempre ciò che chiedeva il venditore: come un’oncia e mezzo e due d’oro; o trenta e quaranta libbre di seta, bene già da loro stessi conosciuta. Così pure ignorantemente comperavano con seti ed oro frammenti d’archi, di anfore, di idrie, di orci: il che vietai perché era certamente iniquo e diedi loro senz’alcun corrispettivo molte belle e gradite cose che avevo portato meco per conciliarmeli più facilmente e ingraziarli e renderli più inclini ad amare il Re, la Regina, i Principi nostri e tutte le genti della Spagna e per indurli a ricercare accumulare e consegnare a noi quelle cose di che essi esuberano e di che noi più abbisogniamo. Non sono affatto idolatri, anzi credono fermamente che ogni forza , ogni potenza e ogni bene sia in cielo, e che io dal cielo sia disceso con queste navi e co’ naviganti, e così dovunque fui accolto dopo che avevan dimesso ogni timore. Nè son pigri o rudi, ma anzi di grande e acuto ingegno, e gli uomini che traversano quel mare non senza ammirazione si rendono conto d’ogni cosa, ma non mai videro genti vestite e navi. Io tostochè giunsi in quel mare tolsi violentemente dalle prime isole alcuni Indiani affinchè imparassero da noi le nostre cose e a noi insegnassero quelle da loro in que’ paesi conosciute. Ed avvenne infatti secondo il nostro desiderio, ché in breve noi li comprendemmo, ed essi compresero noi tanto nel gesto e ne’ segni quanto nel linguaggio e ci furono di gran giovamento. Vengono ora sempre meco e mi credono sempre disceso dal cielo, quantunque abbiano a lungo trattato con noi e trattino ancora, ed essi erano i primi ad indicarci tutto ciò che noi volevanto, gli uni agli altri man mano ad alta voce gridando: Venite venite e vedrete le genti celesti. Per cui e femmine ed uomini e fanciulli e adulti e giovani e vecchi, deposto il timor di prima, ci venivano incontro a gara affollando la strada e portandoci chi cibi e chi bevande con amore e benevolenza incredibili.

Ciascun’ isola ha molte barche di solido legno e, benchè strette, simili in forma e lunghezza alle nostre biremi e più veloci nel corso. Si reggono solamente co’ remi, alcune sono grandi, altre piccole ed altre mediocri; la massima parte maggiori di una bireme da 18 remi. Con queste gl’indigeni fanno il tragitto in tutte quelle isole che sono innumerevoli e fra loro esercitano la loro special mercatura e i lor traffici. Vidi alcune di queste biremi e trasportavano settanta od ottanta rematori.

In tutte quest’isole non vi ha diversità negli aspetti della gente, nei costumi, nel linguaggio: anzi tutti s’intendono a vicenda, ciò che è utilissimo a quello ch’io credo il primo e principal desiderio dei nostri Serenissimi Re: la conversione di quelle genti alla fede, a cui, per quanto ho potuto intendere, sono pur dispostissime e inclini.

Dissi come avanzai prima nell’isola Giovanna per la retta via dall’occidente verso l’oriente facendo 322 miglia, onde per la via e per la distanza io posso dir che la Giovanna è maggiore dell’Inghilterra e della Scozia prese insieme, perciò che oltre le dette 322 miglia in quella parte che volge ad accidente si trovano due provincie, dove io non andai, una delle quali gl’lndiani chiamano Anan, e gli abitanti di essa nascono caudati. Si stendono per una lunghezza di 180 miglia. Dagli Indiani, che conoscono tutte queste isole, trassi quelli che porto meco. Il circuito della Spagnuola è maggiore di tutta la Spagna dalla « Colonia » al « Fonte Rabido». Di qui facilmente si arguisce che il quarto lato di quella che in stesso attraversai da occidente a oriente é lungo 540 miglia. Quest’ isola si deve occupare, ed occupata, non è da disprezzarsi. Di essa al pari delle altre, come dissi più sopra, solennemente presi possesso in nome dell’invitto nostro Re e al Re fu commesso interamente l’impero di quelle e in luogo più opportuno e più adatto a ogni lucro e commercio presi particolarmente possesso di quel gran villaggio cui demmo il nome di Natività del Signore, ed ivi feci eriger tosto una rocca la quale ora deve esser già compiuta e in cui vidi e lasciai gli uomini che sono necessari col vitto sufficiente per oltre un anno, e così anche una caravella e, per costruirne ancora, uomini periti tanto in quest’arte quanto in ogni altra, e la benevolenza e la familiarità incredibili del Re dell’isola stessa verso di loro. Però che le son genti amabilissime e benigne, tanto che il predetto Re si gloriava che io mi chiamassi suo fratello. Anche se lo volessero, non possono nuocere a quelli che son rimasti nella rocca, perché son privi d’armi, vanno nudi e son troppo timidi; perciò quelli che occupano la rocca solamente possono senz’alcun pericolo saccheggiare quell’isola, purchè non vadano oltre le leggi e il governo ch’io diedi. In quest’isola, come appresi, ciascun s’accontenta di una sola moglie, fuorché i principi e i re, ai quali è lecito averne venti. Sembra che le femmine lavorino più degli uomini, né ho potuto apprender bene se abbiano beni proprii, però che vidi l’uno dare all’altro ciò che aveva, specialmente cibi vivande e simili.

Nulla di straordinario trovai come i più credevano, solamente gli uomini molto reverenti e benigni. Né son negri come gli Etiopi; hanno i capelli lisci e corti, cercano di evitare il calore del sole, che più ferve in queste regioni distanti 26 gradi dalla linea equatoriale. Dove più regna il freddo gl’Indiani cercano di mitigarlo secondo le usanze del luogo, per mezzo delle cose calde di cui spesso e abbondantemente si nutrono.

Dunque non vidi nulla di straordinario e non seppi esservene in alcun luogo, se non in un’isola chiamata Charis, che è seconda a chi dalla Spagna naviga verso l’India, e i cui abitanti son ritenuti feroci dalla gente finitima. Si cibano essi di carne umana, hanno più generi di biremi con cui si recano in tutte le isole dell’India; depredano e rubano tutto ciò che possono; non differiscono in nulla dagli altri fuorchè portano a mo’ delle femmine lunghi i capelli; si servono di archi e frecce di canna dove sono confisse, come dicemmo, delle aste accuminate, e perciò son ritenuti feroci ed incutono gran paura agli altri Indiani, ma io non li stimo niente più degli altri. Si congiungono con certe femmine che sole abitano l’isola Matinino, quella che appare prima a chi dalla Spagna naviga verso l’India. Queste femmine non fanno alcun lavoro proprio del loro sesso, trattano li archi e le frecce come più sopra si disse dei loro mariti, e si muniscono di piastre bronzee, di cui v’ha presso di loro grande abbondanza.

Mi si assicura esservi un’altra isola maggiore della sopradetta Spagnuola. Ha gli abitanti che son privi di pelo, e sopra tutte le altre abbonda specialmente di oro. Porto meco uomini di quest’isola e delle altre da me visitate i quali faranno testimonianza di ciò che dissi.

Finalmente per dir in breve dell’utilità della nostra partenza e del nostro sollecito ritorno, questo io prometto: che a’ nostri invittissimi Re, sol che mi accordino un po’ d’aiuto, io sarò per dare tant’oro quanto sarà lor necessario, e così pure tanti aromi, e seta e mastice, quanto se ne ritrova solamente presso Chio, tanto legno d’aloé e tanti servi idolatri, quanti ne vogliano le loro Maestà, e così pure rabarbaro e altre specie di aromi che io stimo abbiano trovato e siano per trovare quelli che lasciai nella rocca sunnominata, poichè in niun luogo dimorai più di quanto mi vi costrinsero i venti, fuorchè nel villaggio della Natività, dove provvidi a edificare la rocca e a far sì che tutto fosse ordinato e sicuro. Le quali cose, se sono pur grandissime e straordinarie, anche molto più lo sarebbero state se mi fosse stato dato avere maggior copia di navi. Grande certamente e mirabile è questo nè corrispondente ai nostri meriti, bensì alla santa fede della Cristianità, alla pietà e alla religione dei nostri Re, perchè ciò che l’umano intelletto non aveva potuto conseguire, ciò Dio concesse agli uomini. Però che Dio suole esaudire anche nelle cose impossibili i servi suoi che osservano i suoi precetti, come toccò a noi che abbiamo conseguito quanto fin qui parve impossibile a forze mortali: perchè se alcuno scrisse o disse alcun che di quest’isole, tutti lo fecero per ipotesi e congetture; nessuno asserì di averle vedute, onde sembrava quasi una favola.

Dunque al Salvatore Signor nostro Gesù Cristo che ci fe’ il dono di tanta vittoria, rendiamo grazie che il Re e la Regina e i Principi e i loro regni felicissimi si sieno arricchiti di una nuova provincia di Cristiani. Si facciano processioni, si celebrino feste solenni, si ornino i templi di liete fronde, esulti Cristo in terra come in cielo, perchè volle che fossero salvate le anime di tanti popoli prima perdute. Rallegriamocene tanto per l’esaltazione della nostra fede come per l’incremento delle cose temporali, di cui non solamente la Spagna ma tutta la Cristianità sta per esser partecipe. Queste cose come furono compiute così furono brevemente narrate. Ed ora abbiti tu il mio saluto.

Lisbona, il 14 marzo (1493)

Cristoforo COLOMBO

Ammiraglio della flotta dell’Oceano.

 

 

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Ultimo aggiornamento: 16 giugno 2006