Saluto del direttore dell'IISF Giovanni Pugliese Carratelli al Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi

 

10 settembre 1999

Signor Presidente della Repubblica,

nel saluto che Le rivolgo a nome dell’Istituto e di tutti i convenuti si esprime non solo il profondo rispetto per il Capo dello Stato e per il politico nutrito di studi umanistici, ma anche una viva gratitudine per l’onore che Ella ha voluto fare all’Istituto con la Sua visita: una visita in cui pensiamo di poter ravvisare un segno di simpatia e di apprezzamento per l’opera che da trent’anni quest’Istituto svolge con intenso impegno per l’incremento e la diffusione degli studi filosofici: filosofici in tutta l’estensione del significato che il termine "filosofia" ha universalmente acquistato nel corso di oltre due millenni.

La storia di questi studi e delle civili conquiste che grazie ad essi si sono compiuti e si compiono ci ha infatti convinti della fondamentale unità della cultura e quindi della necessità di superare la contrapposizione di cultura "scientifica" (o meglio naturalistica) e cultura umanistica, quest’ultima considerata sostanzialmente libresca. L’Istituto si è pertanto adoperato perché venisse chiarita e affermata la comune radice di ogni forma di ricerca scientifica, che è sempre ricerca storica e quindi in definitiva umanistica, e non può scindersi se non in apparenza nelle sue pratiche applicazioni, mentre le sue motivazioni e i suoi intenti appartengono sempre alla sfera dello spirito. L’Istituto ha perciò costantemente fatto oggetto della sua cura tanto le discipline storiche, filosofiche e letterarie quanto quelle fisiche e matematiche; e cerca di mettere in luce la storia delle idee che ne hanno regolato il corso e assicurato il progresso.

In questi orizzonti la ricerca promossa dall’Istituto coincide con quella che si svolge nelle università e in altri istituti statali di istruzione superiore; dove però la funzione didattica ha lo scopo non solo di istruire i discenti ma anche di abilitarli legalmente all’esercizio di una professione: finalità, quest’ultima, che è superfluo dichiarare del tutto estranea al nostro Istituto. Questo ha potuto così intessere un’amichevole collaborazione scientifica con università e istituti di ricerca in vari paesi, non solo d’Europa; anche se in ossequio al loghion evangelico "non est propheta sine honore nisi in patria sua" non è mancata qualche comprensibile pur se poco onorevole gelosia accademica. Ma l’ampio consenso internazionale, nel quale si sono associate agli atenei altissime istituzioni politiche, dalle Nazioni Unite al Parlamento Europeo, mostra che alla comunità degli uomini di studio non è sfuggita l’importanza delle due principali attività dell’Istituto in servizio della cultura: attività che gli istituti pubblici non possono svolgere in egual misura per i limiti che ad essi necessariamente son posti dalle stesse loro finalità. Una è la didattica, che ai corsi e seminarii in questa sede napoletana ha aggiunto seminarii tenuti, e non una volta tanto, in numerosi comuni spesso remoti da centri universitari o privi di biblioteche, nei quali vivono giovani d’ingegno ansiosi di apprendere e di approfondire, e certo non appagati dalla stampa periodica e dalla radio e neppure dalle eventuali conversazioni per Internet; e anche in centri maggiori vi son laureati che non possono o possono solo fugacemente lasciare le loro sedi di lavoro per soddisfare un lodevole desiderio di studio o di informazione. Nel corso di circa venticinque anni l’entusiasmo di Gerardo Marotta, memore di una gloriosa tradizione meridionale di libero insegnamento, ha ottenuto che autorevoli studiosi dedicassero parte del loro tempo libero, e anche più giorni del riposo estivo, a tenere lezioni e seminari in città non universitarie e specialmente in piccoli centri delle regioni meridionali; e seminarii sono stati tenuti in più città d’Europa, contribuendo a quel sereno scambio di idee che è fondamentale per il rafforzamento dell’unità europea.

L’altra e non meno importante funzione che l’Istituto svolge, con una estensione e una tempestività che non possono chiedersi ad istituzioni non autonome, è l’assegnazione di borse di studio: questa ha restituito agli studi tanti giovani e promettenti ingegni, la cui vocazione si sarebbe inaridita nella lunga e incerta attesa che si aprisse per loro un varco nei pubblici istituti di ricerca. E l’Istituto non si limita alla distribuzione di borse di studio, ma segue attentamente il lavoro dei borsisti, ed interviene con ulteriori sussidii quando è accertato l’effettivo progresso delle ricerche, e procura la pubblicazione dei risultati.

Quanto di questa complessa opera trentennale e degli sforzi che essa richiede, non sostenibili a lungo con le sole risorse private, sia stato compreso dagli organi che hanno il compito di distribuire le sovvenzioni che la legge prevede per istituti di alta cultura non statali, non spetta a me dire. Devo però, come uomo di studi, rilevare che una grave minaccia incombe sulla vita di questo Istituto, e non di esso soltanto, per effetto di una poco filosofica predilezione per un’attività che viene designata con un termine classico non del tutto appropriato: tecnologica. Attività certamente degna di essere sostenuta, non di essere anteposta, e con notevole precedenza, alla genuina ricerca scientifica. Di fronte a tali inclinazioni non si può non auspicare che menti sagge ed autorevoli allontanino il rischio che venga vanificata un’opera che ci pare altamente meritoria, e che dell’impegno di chi ad essa presiede rimanga soltanto il ricordo, come avvenne dell’impegno altrettanto nobile e ammirevole di Federico Cesi, quale si manifesta nel discorso del Natural desiderio di sapere. È una significativa coincidenza che l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici sia stato costituito in Palazzo Corsini, per iniziativa dell’indimenticabile presidente dell’Accademia dei Lincei Enrico Cerulli. Come nel discorso cesiano, infatti, nell’opera di questo Istituto è dominante l’idea che non v’è progresso civile se non v’è progresso di cultura, e l’uno e l’altro non possono verificarsi se non vige quel principio che Benedetto Croce ha mirabilmente compendiato in una pagina della sua Storia d’Europa: "la libertà, ossia l’umanità".

Per questo l’Istituto dedica particolare attenzione al Mezzogiorno, dove si sono alternate, in armonia con le vicende del mondo mediterraneo, esperienze civili tra le più luminose e periodi di disorientamento e di inerzia; e ha dato inizio ad una vasta indagine storica sul periodo che si è aperto nel Quattrocento con la stagione dell’umanesimo. L’interesse si accentra specialmente sull’opera del cardinale greco Bessarione, che si proponeva di ricostituire la catena dei cenobii italogreci nel Sud e di far rivivere in essi la cultura greca che i Turchi, fattisi padroni di Bisanzio, stavano spegnendo nell’Oriente mediterraneo. Ricollegando l’avvenire col passato, egli riponeva nella rinascita di quei monasteri disseminati in vaste plaghe la speranza di far penetrare correnti di cultura tra genti oppresse dall’avidità di dinastie feudali ed avvilite da perenni conflitti. L’importanza che per la stabilità politica, e anche per la rinascita economica, poteva avere il piano dettato al monaco studioso di Platone dalla sua fede nella cultura fu ben compresa dai sovrani Aragonesi, uomini d’armi e non certo di studi, che professarono grande rispetto per il cardinale venuto da Bisanzio. Un’altra grande figura di filosofo è sullo sfondo di questa straordinaria scena: la figura di un amico del Bessarione, il cardinale Nicola da Cusano: "il divino Cusano", come lo ha chiamato Giordano Bruno ammirato per l’ampio respiro e l’arditezza del suo pensiero; e "cardinale poverissimo", come lo ha ricordato il libraio amico degli umanisti fiorentini Vespasiano da Bisticci, al corrente dei problemi che l’alto costo dei codici poneva ad un dotto la cui vita era divisa tra faticose legazioni o grandi uffici di curia e notturne veglie di studio. Amici e discepoli del Bessarione e del Cusano occuparono vari episcopati dell’Italia meridionale; e così un platonismo in parte diverso da quello ficiniano e pichiano mise radici nel Regno di Napoli, ravvivando notizie della filosofia greca che vi circolavano già dall’età di Cassiodoro e si erano chiarite e diffuse attraverso versioni latine e arabo-latine di testi greci e attraverso testi greci che biblioteche basiliane avevano offerto a qualche studioso ancora in grado di leggerli. Per canali che una gran copia di manoscritti greci e latini raccolti dagli umanisti invita ad esplorare, la linfa platonica ha alimentato il pensiero di quelli che un eminente storico della filosofia ha chiamato "i platonici italiani" – Telesio, Bruno, Campanella – e di più recenti filosofi meridionali, da Vico a Filangieri a Pagano.

Questi nomi sono i segni del corso delle idee che hanno condotto gli illuministi napoletani, giuristi e filosofi, letterati e medici, esponenti dell’episcopato e dell’aristocrazia, a disegnare e poi a mettere in atto uno schema di stato liberale, il cui governo non cedette mai alla pressione dei mutevoli sentimenti della moltitudine. La Repubblica Napoletana, che ricordiamo quest’anno e in questo Palazzo con particolare rispetto e raccoglimento, si è distinta tra le esperienze politiche del suo secolo per il carattere dei suoi fondatori, la loro ispirazione filosofica, il loro spirito di sacrificio. Ai repubblicani di Napoli la grande rivoluzione di Francia ha offerto l’occasione, il modello di qualche istituto, alcuni emblemi, non idee nuove; e spargimento di sangue e torture fisiche e morali non vi sono stati che per i suoi fondatori e difensori ad opera della reazione borbonica. Benedetto Croce ha ben visto che per le loro ragioni ideali, per la loro visione politica e per il loro esempio i repubblicani di Napoli hanno dato il primo segno del nostro Risorgimento.

Signor Presidente della Repubblica,

in un recente discorso alla Sua (e posso dire anche mia) Scuola Normale di Pisa, Ella ha detto, riferendosi agli anni drammatici della dittatura, della guerra e della liberazione che "quegli eventi non debbono assolutamente sparire dalla memoria del popolo italiano"; e che abbiamo "la responsabilità di saper tramandare quei ricordi, perché sono una specie di vaccino contro quello che può sempre accadere". Per queste parole così ferme, dettate da una sapienza politica illuminata da una parmenidea pistis alethés, da una "fiducia nella verità", Le dobbiamo profonda gratitudine, perché esse erano e sono necessarie. Il mondo è ancora percorso, a tratti, da ideologie e nostalgie perverse; ed è saggio invocare la divina Mnemosyne, la Memoria che presiede alle animatrici creazioni delle menti che sanno contemplare il platonico "modello che è nel cielo". Ad essa si raccomandavano i Pitagorici maestri di un vivere teso alla ricerca del vero; i Pitagorici sulle cui dottrine meditava nel 1855, nella desolazione dell’ergastolo borbonico di Santo Stefano, Silvio Spaventa. E il nome, venerato in questo Istituto, del grande uomo di Stato che fece scopo della sua vita l’unità e la libertà dell’Italia, ci sembra, Signor Presidente, che sia giusto sigillo al saluto che con salda fiducia e rispettosa simpatia Le rinnoviamo.