http://www.romacivica.net/anpiroma/Resistenza/resistenza2c6.html
16 ottobre 1943
La deportazione
degli ebrei di Roma
"Quel 16 ottobre -racconta uno degli scampati alla
deportazione- era un sabato, giorno di riposo per gli ebrei osservanti. E nel
Ghetto i più lo erano. Inoltre era il terzo giorno della festa delle Capanne.
Un sabato speciale, quasi una festa doppia... La grande razzia cominciò
attorno alle 5.30. Vi presero parte un centinaio di quei 365 uomini che erano
il totale delle forze impiegate per la "Judenoperation". Oltre
duecento SS contemporaneamente si irradiavano nelle 26 zone in cui la città
era stata divisa per catturare casa per casa gli ebrei che abitavano fuori del
vecchio Ghetto. L'antico quartiere ebraico fu l'epicentro di tutta
l'operazione... Le SS entrarono di casa in casa arrestando intere famiglie in
gran parte sorprese ancora nel sonno... Tutte le persone prelevate vennero
raccolte provvisoriamente in uno spiazzo che si trova poco più in là del
Portico d'Ottavia attorno ai resti del Teatro di Marcello. La maggior parte
degli arrestati erano adulti, spesso anziani e assai più spesso vecchi. Molte
le donne, i ragazzi, i fanciulli. Non venne fatta nessuna eccezione, né per
persone malate o impedite, né per le donne in stato interessante, né per
quelle che avevano ancora i bambini al seno...". "I tedeschi bussarono, poi non avendo ricevuto
risposta sfondarono le porte. Dietro le quali, impietriti come se posassero
per il più spaventosamente surreale dei gruppi di famiglia, stavano in
esterrefatta attesa gli abitatori, con gli occhi da ipnotizzati e il cuore
fermo in gola", ricorda Giacomo Debenedetti. "Fummo ammassati davanti a S. Angelo in Pescheria: I
camion grigi arrivavano, i tedeschi caricavano a spintoni o col calcio del
fucile uomini, donne, bambini ... e anche vecchi e malati, e ripartivano.
Quando toccò a noi mi accorsi che il camion imboccava il Lungotevere in
direzione di Regina Coeli... Ma il camion andò avanti fino al Collegio
Militare. Ci portarono in una grande aula: restammo lì per molte ore. Che
cosa mi passava per la testa in quei momenti non riesco a ricordarlo con
precisione; che cosa pensassero i miei compagni di sventura emergeva dalle
loro confuse domande, spiegazioni, preghiere. Ci avrebbero portato a lavorare?
E dove? Ci avrebbero internato in un campo di concentramento? "Campo di
concentramento" allora non aveva il significato terribile che ha oggi.
Era un posto dove ti portavano ad aspettare la fine della guerra; dove
probabilmente avremmo sofferto freddo e fame, ma niente ci preparava a quello
che sarebbe stato il Lager", ha scritto Settimia Spizzichino nel suolibro
"Gli anni rubati". Per la prima volta Roma era testimone di un'operazione di
massa così violenta. Tra coloro che assistettero sgomenti ci fu una donna che
piangendo si mise a pregare e ripeteva sommessamente: "povera carne
innocente". Nessun quartiere della città fu risparmiato: il maggior
numero di arresti si ebbe a Trastevere, Testaccio e Monteverde. Alcuni si
salvarono per caso, molti scamparono alla razzia nascondendosi nelle case di
vicini, di amici o trovando rifugio in case religiose, come gli ambienti
attigui a S. Bartolomeo all'Isola Tiberina. Alle 14 la grande razzia era
terminata. Tutti erano stati rinchiusi nel collegio Militare di via della
Lungara, a pochi passi da qui. Le oltre 30 ore trascorse al Collegio Militare
prima del trasferimento alla Stazione Tiburtina furono di grande sofferenza,
anche perché gli arrestati non avevano ricevuto cibo. Tra di loro c'erano 207
bambini.
Dei 1024 ebrei catturati il 16 ottobre ne sono tornati solo
16, di cui una sola donna (Settimia Spizzichino). Nessuno degli oltre 200
bambini è sopravvissuto.
Testimonianze Giacomo Debenedetti "I tedeschi bussarono, poi non avendo ricevuto
risposta sfondarono le porte. Dietro le quali, impietriti come se posassero
per il più spaventosamente surreale dei gruppi di famiglia, stavano in
esterrefatta attesa gli abitatori, con gli occhi da ipnotizzati e il cuore
fermo in gola". Settimia Spizzichino (da
"Gli anni rubati") "Fummo ammassati davanti a S. Angelo in Pescheria: I
camion grigi arrivavano, i tedeschi caricavano a spintoni o col calcio del
fucile uomini, donne, bambini ... e anche vecchi e malati, e ripartivano.
Quando toccò a noi mi accorsi che il camion imboccava il Lungotevere in
direzione di Regina Coeli... Ma il camion andò avanti fino al Collegio
Militare. Ci portarono in una grande aula: restammo lì per molte ore. Che
cosa mi passava per la testa in quei momenti non riesco a ricordarlo con
precisione; che cosa pensassero i miei compagni di sventura emergeva dalle
loro confuse domande, spiegazioni, preghiere. Ci avrebbero portato a lavorare?
E dove? Ci avrebbero internato in un campo di concentramento? "Campo di
concentramento" allora non aveva il significato terribile che ha oggi.
Era un posto dove ti portavano ad aspettare la fine della guerra; dove
probabilmente avremmo sofferto freddo e fame, ma niente ci preparava a quello
che sarebbe stato il Lager". Perla Funaro (da Il Messaggero, 16
ottobre 2003) Apre Il Messaggero, e vede la foto dei suoi zii e
dei due cuginetti, che non sono mai tornati da Auschwitz; una foto che lei non
conosceva. «Ero andata a leggere le due pagine sulla deportazione, perché
quel giorno hanno portato via anche me, che avevo cinque anni, con i miei
genitori; ho riconosciuto zio Leo, e sono scoppiata a piangere». Perla Funaro
racconta una storia terribile, e anche terribilmente romana. «Mio padre,
Cesare, aveva cinque fratelli: Ettore, Leo, Ada, Giuditta e Arnaldo. Noi
vivevamo a Montesacro; ma zia Giuditta faceva l’ostetrica, e dopo le leggi
razziali, poteva lavorare solo con gli ebrei; per questo, ci siamo trasferiti
a via Arenula». Il 16 ottobre ’43, «presi tutti, meno Arnaldo che era
nascosto. Portati a via della Lungara, alla Scuola militare; la sera, papà,
mamma e io rilasciati: perché mamma era ariana, cattolica, e io anche. In
quelle ore, papà ha detto a mamma: se ci liberano, facciamo un altro figlio.
E così, nel ’44 nasce Dario». E quella foto? «Zio Leo, sua moglie Teresa
Di Castro, i figli Dario ed Adolfo, allora 13 e 7 anni. Mai più tornati. Come
gli altri miei zii: nel lager , io ho perso otto persone. I fratelli
non si sono nemmeno salutati tra loro, a via della Lungara: chi poteva sapere
che non si sarebbero rivisti mai più?». Michele Bolgia (da Il Corriere, 16
ottobre 2003) Michele Bolgia lasciava ogni mattina i suoi due ragazzi a casa. La
moglie Maria Cristina era stata mitragliata a morte da un aereo alleato mentre
attraversava di corsa largo Preneste durante i bombardamenti del luglio ’43.
E lui era dovuto scappare dal Prenestino con Giuseppe, appena dodicenne, e
Sara, di poco più grande, diciassettenne. In quell’ottobre del 1943 Bolgia,
riparato dopo alcuni mesi di odissea abitativa in un piccolo appartamento di
via Borelli, usciva di casa per correre col suo orologio Roskoff da ferroviere
nel taschino dei pantaloni verso la stazione Tiburtina. Là, come ferroviere
guardasala, Michele Bolgia faceva spesso anche la notte. Turni lunghi, dalle 9
di sera alle 6 del mattino. Notti buie, da coprifuoco, con la città in mano
in tedeschi... Michele Bolgia era un cinquantenne romano di statura minuta,
figlio di un toscano venuto in città da Orbetello, con un antenato maremmano
(Giovanni) che a Talamone, quando Garibaldi aveva fatto sosta per un giorno
con i suoi Mille diretti in Sicilia, aveva detto ciao ai genitori e si era
imbarcato allegramente con i garibaldini. Forse in Michele ribolliva ancora un
po’ di quel sangue. Minuto di statura, imbacuccato sempre in un vestituccio
grigio, simpatizzante socialista in fondo al cuore, il ferroviere Bolgia è l’uomo
coraggioso che «spiombava» i carri pieni di deportati. In quei momenti lì
non pensava certo ai suoi due ragazzi lasciati a casa ma a quei vagoni pieni
di ebrei da deportare, carri allineati su quel maledetto binario uno della
Stazione Tiburtina. E con le porte piombate. Che Bolgia a volte riusciva a
riaprire facendo fuggire qualcuno. La maggioranza però rimase spesso su quei
carri spiombati, non sapendo bene cosa fare e avendo paura di scendere da quei
convogli terribili. Mario Limentani (da Il Corriere, 16
ottobre 2003) Mario Limentani, che è tornato dall’inferno di Mauthausen, era su uno
di quei carri spiombati. «Eravamo ammassati dentro il carro, fermo sul primo
binario della Stazione Tiburtina, quando ci accorgemmo che la porta era
socchiusa - ricorda oggi - Qualcuno l’aveva riaperta, dopo che i tedeschi l’avevano
sprangata e piombata. Non sapevamo che fare. Ci avevano detto che ci portavano
a lavorare a Bologna. Eravamo incerti. Uscire poteva essere pericoloso.
Restammo. Arrivammo poi a Bologna con quella porta ancora aperta. Lì i
tedeschi se ne accorsero e la chiusero brutalmente con una manetta. Il nostro
viaggio non era finito...». Lia Levi e Giacomo
Limentani (da il Manifesto, 16 ottobre 2003) Undici anni lei, otto lui. Due bambini e basta. Lia
Levi e Giacomo Limentani quella mattina del 16 ottobre se la ricordano bene.
«Avevo solo otto anni - racconta Limentani - ma nel 1943, a quell'età, un
bambino ebreo era come un diciottenne di oggi. Sembrerà esagerato ma era dal
1938 che avevo cominciato a capire cosa fossero le leggi razziali. Avevo anche
tirato un pugno ad un bambino che mi aveva chiamato `giudeaccio', facendolo
sanguinare. Era il figlio di un gerarchetto e la mia famiglia era
terrorizzata.» Anche Lia Levi in parte sapeva: «Dopo che i tedeschi avevano
fatto il `patto' dell'oro - cinquanta chili in cambio di noi - la comunità
ebraica romana era ancora speranzosa, credeva a ciò che si diceva in giro: i
tedeschi non avrebbero mai portato via gli ebrei sotto gli occhi del papa. La
popolazione era sollevata ma i miei genitori interpretarono quel patto come il
primo segno delle ostilità. Adriano Ossicini (da
Il Messaggero, 16 ottobre 2003) Gli elmetti delle SS luccicavano al chiarore dei fari, i
soldati si muovevano a gruppi, un ragazzino tentò di scappare e fu subito
ripreso. La partenza dei
convogli dei deportati Verso l’alba del lunedì, i razziati furono messi su autofurgoni e
condotti alla stazione di Roma-Tiburtino, dove li stivarono su carri bestiame,
che per tutta la mattina rimasero su un binario morto. Una ventina di tedeschi
armati impedivano a chiunque di avvicinarsi al convoglio. DALLA VOCE DEPORTAZIONE
RAZZIALE: LA PERSECUZIONE
ANTIEBRAICA IN ITALIA, 1943-1945 di Liliana Picciotto pubblicata in “Dizionario della
Resistenza” a cura di Enzo Collotti, Renato Sandri e Frediano Sessi, Einaudi,
Milano 2000, pp.141-147 Nel
settembre del 1943, gli Ebrei nell'Italia centro-settentrionale erano ormai
circa 33.000 tra cittadini italiani e profughi stranieri. Quello che segue è uno dei pezzi per me più
insopportabili. Molti ebrei che occupavano posizioni di prestigio nella
società italiana, sostennero fin dalle origini il Fascismo. Si leggeranno
ancora oggi giustificazioni capziose del tipo: ma noi non sapevamo che il
Fascismo sarebbe poi diventato antisemita. Spiacente, il valore di tale
giustificazione è meno che nullo. Si opprime il prossimo, si mettono su
le squadracce che attaccano le organizzazioni operaie, che bruciano le case
del popolo e malmenano operai e poi si dice che il Fascismo alle origini non
era antisemita ? E' pura follia! La stessa follia che avrebbe giustificato una
Risiera per ogni oppositore del regime purché lo stesso regime non avesse mai
toccato alcun ebreo. Ed ancora oggi si riflette poco su questo, tanto è che
il Fascismo vive bene in alcune comunità ebraiche italiane che gli fanno da
levatrici e da accompagnatrici nei luoghi che contano. Ebrei e fascismo,
storia della persecuzione a cura di Mario Avagliano (in Patria Indipendente, n. 6-7,
giugno-luglio 2002) All'inizio del Novecento le comunità israelitiche sono quasi del tutto
integrate in Italia, e l’antisemitismo è limitato a frange minoritarie del
mondo cattolico e ad alcune riviste, come La Civiltà Cattolica dei
gesuiti. Alcuni esponenti delle comunità ricoprono cariche importanti nella
politica e nell’esercito: nel 1902, fra i 350 senatori nominati dal re,
figurano 6 senatori ebrei (nel 1920 diventeranno addirittura 19); nel 1906 il
barone Sidney Sonnino, ebreo convertito al protestantesimo, è nominato
presidente del Consiglio, dopo essere stato ministro delle Finanze e degli
Esteri; nel 1910 un altro ebreo, Luigi Luzzati, questa volta non convertito,
ricopre la carica di primo ministro, dopo essere stato anch’egli ministro
delle Finanze. Il sociologo Leopoldo Franchetti è senatore conservatore per
molti anni, prima di suicidarsi dopo la sconfitta italiana di Caporetto.
Salvatore Barzilai, giornalista irredentista di Trieste, è eletto deputato
per otto mandati e, dopo la Grande Guerra, fa parte della delegazione italiana
alla conferenza per la pace a Versailles. Ernesto Nathan, ebreo e massone, è
sindaco di Roma dal 1907 al 1913. Giuseppe Ottolenghi, primo ebreo a rivestire
il grado di generale nel 1888, diventa istruttore del futuro Vittorio Emanuele
III e nel 1902 viene nominato senatore e ministro della Guerra. E’
significativo anche il contributo ebraico al primo conflitto mondiale: l’Italia
ha 50 generali ebrei; uno di questi, Emanuele Pugliese, sarà il più decorato
dell’esercito; un altro, il generale Roberto Segre, idea le difese sul
Piave. Nascita
del fascismo: ebrei fascisti e ebrei oppositori L’avvento del fascismo non mette in crisi l’integrazione
degli ebrei in Italia. Nella famosa riunione in piazza San Sepolcro a Milano
(23 marzo1919), fra i 119 fondatori del fascismo ci sono anche cinque ebrei,
ed è uno di loro (Cesare Goldman) a procurare la sala all'associazione
industriali dove Mussolini tiene a battesimo il movimento. Tra i "martiri
fascisti" che muoiono negli scontri con i socialisti fra il 1919 e il
1922, figurano tre ebrei: Duilio Sinigaglia, Gino Bolaffi e Bruno Mondolfo.
Più di 230 ebrei partecipano alla marcia su Roma nell’ottobre del 1922 e
risulta che a quella data gli iscritti al partito fascista o a quello
nazionalista (che poi nel 1923 si fondono) siano ben 746. A Fiume con
D'Annunzio ci sono ebrei, fra cui Aldo Finzi che diviene poi sottosegretario
agli interni di Mussolini e membro del Gran Consiglio (allontanato dal Regime,
entrerà poi nella Resistenza e morirà alle Fosse Ardeatine), mentre Dante
Almansi ricopre addirittura sotto il fascismo la carica di vice capo della
polizia. Guido Jung è eletto deputato fascista e viene nominato ministro
delle Finanze dal 1932 al 1935. Maurizio Rava è nominato vicegovernatore
della Libia, governatore della Somalia e generale della milizia fascista.
Tanti altri ebrei, pur occupando posti di minore importanza, contribuiscono
all’affermazione del fascismo, come il commendator Elio Jona, finanziatore
de Il Popolo d’Italia, e come gli industriali lombardi di origine
ebraica che, per paura del comunismo, sostengono finanziariamente il
movimento. Lo stesso Benito Mussolini conta fra i suoi amici
esponenti dell’ebraismo quali la russa Angelica Balabanoff, Cesare Sarfatti
e Margherita Sarfatti, per lungo tempo amante del duce, condirettrice della
rivista fascista "Gerarchia" e autrice della prima biografia di
Mussolini dal titolo Dux, tradotta in tutte le lingue, che contribuisce
significativamente a propagandare il fascismo a livello mondiale. Questo non significa che l’ebraismo italiano sposi la
causa del fascismo. Mussolini, fin dai primi anni, deve fare i conti con l’opposizione
anche di molti ebrei: i socialisti Treves e Modigliani sono fra i protagonisti
dell’Aventino; il senatore Vittorio Polacco pronuncia un coraggioso
discorso, che ha una vasta eco nel paese; Eucardio Momigliano, che era stato
uno dei sansepolcristi ebrei, abbandona il fascismo quasi subito, fondando l’Unione
democratica antifascista; il deputato Pio Donati, aggredito e percosso due
volte, è costretto all’esilio e muore in solitudine nel 1926; alcuni
professori universitari rifiutano fedeltà al Regime (tra i 12 coraggiosi in
tutt’Italia, tre sono ebrei: Giorgio Errera, Giorgio Levi della Vida e Vito
Volterra), il presidente della Corte Suprema Ludovico Mortara si dimette; nel
maggio del ’25 il Manifesto degli intellettuali fascisti redatto da Croce è
sottoscritto da 33 ebrei. Primi anni del Regime, il problema
ebraico non esiste Nei primi anni Venti per il fascismo il problema ebraico
non esiste, anzi Mussolini – quando ciò corrisponde ai suoi fini politici
– non manca di corteggiare le comunità israelitiche, come testimoniano le
sue parole sul Popolo d’Italia del 1920: "In Italia non si fa
assolutamente nessuna differenza fra ebrei e non ebrei, in tutti i campi,
dalla religione, alla politica, alle armi, all’economia... la nuova Sionne,
gli ebrei italiani, l’hanno qui, in questa nostra adorabile terra".
Solo dopo il ‘38, molti zelanti gerarchi italiani filo-nazisti, per far
piacere a Hitler, spulceranno alcuni vecchi discorsi di Mussolini, con qualche
frase che si poteva interpretare razzista (sul Popolo d'Italia del 4
giugno 1919 il duce affermava: "Sulla Rivoluzione Russa mi domando se non
è stata la vendetta dell'ebraismo contro il cristianesimo, visto che l'80 per
cento dei dirigenti dei soviet sono ebrei... La finanza dei popoli è in mano
agli ebrei, e chi possiede le casseforti dei popoli dirige la loro
politica" e concludeva che il bolscevismo era "difeso dalla
plutocrazia internazionale, e che la borghesia russa era guidata dagli ebrei;
quindi proletari non illudetevi"). Ma si tratta soltanto di battute. Nel novembre del ’23
Mussolini, dopo aver ricevuto il rabbino di Roma Angelo Sacerdoti, fa diramare
un comunicato ufficiale in cui si legge: "(…) S.E. ha dichiarato
formalmente che il governo e il fascismo italiano non hanno mai inteso di fare
e non fanno una politica antisemita, e che anzi deplora che si voglia
sfruttare dai partiti antisemiti esteri ai loro fini il fascino che il
fascismo esercita nel mondo". Nel 1930, l’anno dopo il Concordato col
Vaticano, il duce fa approvare la Legge Falco sulle Comunità israelitiche
italiane, accolta molto favorevolmente dagli ebrei italiani. In realtà con questa legge il fascismo vuole soltanto
servirsi degli ebrei per la sua politica. Il rabbino di Alessandria d’Egitto
(David Prato) è un italiano; in tal modo si pensa che l’influenza italiana
nel Levante si affermi; viene perciò aperto un Collegio rabbinico a Rodi; i
consoli italiani fanno opera di persuasione perché gli ebrei italiani all’estero
non rinuncino alla cittadinanza; si facilita l’iscrizione alle Università
italiane di quegli studenti stranieri che provengono da paesi dove vige il
"numerus clausus". Il Collegio rabbinico da Firenze viene nuovamente
trasferito a Roma. Nel ’32 la Mondadori pubblica i famosi Colloqui con
Mussolini di Emil Ludwig, e il duce condanna il razzismo senza riserve,
definendolo una "stupidaggine", quanto all’antisemitismo, afferma
che "non esiste in Italia". Dopo la presa del potere da parte di
Hitler, i profughi ebrei dalla Germania vengono accolti e il loro insediamento
non è ostacolato dalle Autorità. Se non si tratta di un corteggiamento, poco ci manca. La
risposta delle comunità ebraiche è ottima: tra l’ottobre del 1928 e l’ottobre
del 1933, sono 4920 gli ebrei che si iscrivono al partito fascista; poco più
del 10 per cento della popolazione ebraica italiana. FASCISTI EBREI È particolarmente significativo il breve racconto Pace
fatta (Il mio ghetto, Garzanti, 1987, pp.129-133), che descrive un’assemblea
della Comunità di Torino poco dopo la promulgazione delle leggi razziali e ci
mostra una buona parte degli ebrei torinesi
nonostante tutto ancora fiduciosa nel fascismo e nel Duce. Merita di essere
riletto per intero il discorso che Sion Segre Amar attribuisce al Presidente: Cari correligionari! Siamo qui riuniti per discutere
della situazione nella quale siamo venuti a trovarci in un momento difficile
della storia patria. Nubi si addensano sull’orizzonte dell’Europa, e l’Italia,
sotto la guida illuminata del Duce, fondatore dell’Impero, non può rimanere
insensibile ai mutamenti della storia. Il genio latino, oggi impersonificato
nel Duce, ha sempre rispettato la minoranza ebraica che da duemila anni
partecipa alle vicende patrie nel bene e nel male. Se lo vorremo, sarà ancora
così. Ne volete una prova? La troviamo nelle parole stesse del Duce, al quale
in questo momento va il nostro pensiero fiducioso. Inderogabili esigenze di carattere internazionale, le
cui recondite motivazioni sfuggono alla nostra percezione, ci impongono dei
sacrifici, per il bene comune. Li accettiamo con animo forte, per quel senso
del dovere che ha sempre caratterizzato i nostri comportamenti. Tanto più
perché ci è stato autorevolmente assicurato che se saremo rispettosi delle
leggi (Voce dal fondo: "Anche le leggi per la difesa della razza?")…
Non interrompetemi con le vostre sciocchezze: come è stato nostro onore e
vanto, non verranno adottati provvedimenti più severi di quelli che il corso
ineluttabile della storia ha voluto. State tranquilli. Tutto ciò che si potrà fare da parte
nostra, verrà fatto. Il vostro Presidente, i Consiglieri tutti, non sono
insensibili alle vostre preoccupazioni. Nella seduta consiliare che ha
preceduto questa riunione è stato preparato un memoriale-appello, che verrà
consegnato alla maestà del Re Imperatore se le circostanze lo consiglieranno.
Il passato di combattente di chi vi parla vi dia garanzia che il messaggio non
cadrà nel vuoto. Sessantacinque anni dopo possiamo affermare di essere
del tutto immuni da questa ostinata volontà di credere a tutti i costi in un
governo amico nonostante le evidenti prove del contrario? È anche interessante ricordare a chi si attribuiva la
colpa delle leggi razziali: "Cari correligionari. Ricordate tutti,
perché è storia di ieri, che proprio da Torino, dalla nostra città che
tante benemerenze ha avuto nella storia patria e del fascismo in particolare,
è scoccata la scintilla che ha dato origine per la prima volta in Italia a
qualche manifestazione di antisemitismo; subito repressa, è doveroso dirlo,
per intervento personale del duce. Di chi fu la colpa? Lo sapete tutti: di un
gruppetto di giovani esaltati, fuorviati da false ideologie. Se ne parlo,
mentre il tacere sarebbe stato bello, è perché a quelle ideologie anarcoidi
di sinistra, si sposa una proclamazione di fede sionistica. Sionistica, e
quindi antinazionale…". L’atmosfera si fa incandescente, perché tra i
presenti vi sono alcuni che della loro aspirazione al ritorno alla terra dei
padri non fanno mistero, e non vi vedono contrasto alcuno con la loro fedeltà
all’Italia e al Regime. Alcuni chiedono la parola, altri se la prendono.
Nella confusione si grida e ci si dà qualche spintone… La spaccatura tra gli ebrei
torinesi è completa e definitiva. Provvederà presto Mussolini a farci
ritrovare la proverbiale solidarietà. Sessantacinque anni dopo possiamo leggere questo
racconto come la brillante descrizione di un mondo che non ci appartiene più,
o la lapidaria frase conclusiva getta ancora su di noi un’ombra di
inquietudine? Anna Segre Meno male c'è chi ancora possiede questa
lucidità.
La signora Perla è ancora scossa. Racconta di sua madre, Trieste Belardi
(«nonno era repubblicano; i figli li aveva chiamati tutti così: Oberdan,
Anita, Balilla, Cesare»); di lei, che le zie volevano divenisse ebrea («mi
avevano anche iscritta alla comunità, ricevevo Shalòm ; nel
dopoguerra, mi sono cancellata: e se a qualche matto gli gira come gli è
girato a quello lì...?»); della singolare vita in casa sua («papà non era
molto religioso, come non lo erano mai stati i Funaro; però, il giorno di Kippùr
digiunava da solo»). E di «zio Leo, che era rimasto a Montesacro,
abitava al piano ammezzato; e quando arrivano, i nazisti credono che sia lui
il portiere. Lui, che non era il portinaio, non apre; loro sfondano la porta,
e gli spaccano la testa; è partito per Auschwitz tutto bendato, poverino».
Indagini a fine guerra? «Abbiamo chiesto a qualcuno; ci hanno detto d’aver
visto zio Leo che mangiava le bucce delle patate».
Quella mattina «non la dimenticherò mai. Sentiamo grandi rumori nella
strada; ci affacciamo; uno, che vendeva abbacchi, ci urla: scappate, che
arrivano i tedeschi. Non c’è tempo: suonano alla porta; cercano zio Ettore
e portano via tutti. I nazisti spingevano la gente per il sedere, perché
salissero più in fretta sui camion. Se ci fossimo incontrati a via della
Lungara, magari mamma poteva portarsi via almeno i bambini, no?». E anche
dopo, tanta paura: «Altri rastrellamenti; mio padre si nascondeva sempre
dietro un armadio».
Bolgia fu preso l’8 marzo del ’44, mentre scendeva dal tram 8 a piazza dei
Cinquecento. Era una retata, i fascisti lo avevano già segnalato da un po’
di tempo, da quando era corsa voce che alcuni deportati erano riusciti a
fuggire dallla Stazione Tiburtina. Fu portato a via Tasso, ci rimase due
giorni, poi fu spostato nel terzo braccio di Regina Coeli. In cella era con
due ufficiali, Solinas e Curatolo. «Venne lanciato dentro la nostra cella una
mattina - ha scritto Curatolo - Si presentò a noi con un profondo inchino.
Era un ferroviere. Ogni volta che gli si chiedeva l’ora, dopo aver
consultato il suo monumentale Roskoff, riferiva l’ora, i minuti primi e i
secondi...» Il I° ottobre di quell’anno quell’orologio fu ritrovato in
tasca a una delle vittime delle Fosse Ardeatine. Era una delle 39 vittime
prive della testa che era stata mozzata. Come il tenore Nicola Ugo Stame. «Lo
riconoscemmo da quell’orologio e da un’agendina piccola piccola - ricorda
il figlio Giuseppe, allora tredicenne - Povero papà, com’era ridotto...» L’orologio
segnava le 15,30. Quando fu estratto da uno dei cumuli di morti era il corpo
numero 124. Giuseppe crebbe poi in un «istituto» di Tor Marancia. Oggi ha 72
anni, un figlio che si chiama Michele e che insegna ai detenuti di Rebibbia,
una pensione da ex impiegato Inps. E dice: «Medaglie a papà? Nessuno gliene
ha mai concessa una...» .
Già, il patto e la comunità romana. Limentani ricorda: «La mattina del 16
ottobre - dopo quella storia dell'oro che io avevo vissuto con lucidità
mentre vedevo portare via da casa le nostre picccole gioie - la paura c'era.
Nel mio palazzo abitava anche un ufficiale della milizia che ci aveva fatto
capire che qualcosa di grosso sarebbe successo di lì a poco. Ma gli ebrei
romani non sapevano ancora chi fossero veramente i nazisti né cosa fossero le
persecuzioni. Di soluzioni finali, a a Roma, non se ne capiva un fico secco:
eppure avremmo dovuto aspettarcelo. Eravamo stati censiti presso l'ufficio
della razza e c'erano i nostri elenchi anche negli archivi della comunità. La
nostra fortuna fu che quella mattina una zia di mia madre ci buttò fuori di
casa. Aveva avuto la notizia del rastrellamento al Portico d'Ottavia».
«Eravamo tre sorelle - io, Gabriella di nove anni e Vera di sei. Il 16
ottobre eravamo già nascoste in un convento. E lì arrivarono gli echi del
rastrellamento: improvvisamente il convento si riempì di bambine e le suore
decisero di attrezzare una camerata speciale. Sapevo, non sapevo?. Non so.
Ricordo solo un grande rancore verso i miei genitori che ci avevano
rassicurate: `non succederà niente', ci dicevano. E invece succedeva». Nove
mesi, Lia Levi e rimasta in quel convento dove nessuno le ha mai chiesto
esplicitamente di convertirsi: «Era l'atmosfera che creava in noi dei dubbi.
Le suore ci dicevano `Nella vita c'è sempre un'occasione per cui tu vieni in
contatto con al verità'. Pensavo che quella fosse la mia occasione, ho avuto
una crisi di identità spaventosa».
Non così Giacomo Limentani: «Scappammo e così ebbi il modo di capire cosa
fosse una retata, scappammo sul filobus e all'altezza del portico vidi
buttare, dal primo piano, sui camion dei bambini. Duecento di loro non sono
piu tornati. Con mia sorella, ci andammo a nascondere nell'ufficio di mio
padre che tanto valeva restare a casa: sulla porta c'era una targa enorme con
il nostreo nome e chiunque avrebbe potuto trovarci. Rimanemmo lì, per tre
mesi, scalzi e con le finestre chiuse; poi per una settimana fummo accolti
nella casa di un grande amico cattolico di mio padre. Poi scappammo ancora e
ci nascondemmo purtroppo in un convento. Dico purtroppo perché la strada
avrebbe dovuto essere quella della montagna. Ora ricordo solo una città buia,
scura, senza sole. Nove mesi di oscuramente: è una sensazione che ho ancora e
sempre davanti agli occhi».
Buio, tedeschi, fine dello stato. «Mio padre era figlio di un caduto in
guerra, aveva il senso dello stato, dello stato liberale. Al censimento
dichiarò che eravamo ebrei. I tedeschi? Sì, me li ricordo. Il nostro
convento confinava con una villa di ebrei dove la Wermacht aveva stabilito un
suo comando. Non erano le Ss e ogni tanto scavalcavano la siepe per giocare
con noi. Non sapevano che eravamo ebree. Io temevo di vedere dei mostri e
invece vedevo persone normali anche gentili. E' l'altro lato.
«Si sentivano le urla, i pianti delle donne, il rumore dei camion militari -
racconta l'ex ministro Adriano Ossicini, 83 anni, uno dei testimoni di quella
notte - Vedevo le divise dei tedeschi e gente che tentava di scappare dal
Ghetto verso l'Isola Tiberina. Era una scena spaventosa, una cosa
apocalittica». Era, in altri termini, l'alba del 16 ottobre 1943 e i soldati
del Reich rastrellavano gli ebrei romani del Portico d'Ottavia. Ossicini,
allora laureando in Medicina ma già comandante partigiano, poi medaglia d'oro
alla Resistenza, aveva solo ventidue anni e stava facendo pratica all'ospedale
Fatebenefratelli. «Quello che era terribile - racconta - erano quegli ordini
rabbiosi, gridati in una lingua straniera, che rimbombavano tra le case. Gli
ebrei, ci sembrò subito chiaro, erano destinati ai lager. Fu un incubo».
Ossicini, presidente del Comitato Nazionale di Bioetica, tuttora professore di
Psicologia alla Sapienza, per trent'anni parlamentare come indipendente di
sinistra, ex responsabile della Famiglia nel Governo Dini, vide tutto «da una
finestra del reparto Sala San Pietro dell'ospedale». «Stavo facendo
un'endovenosa a un paziente - dice l'ex ministro, che ha accennato in un
libro, “Un'isola nel Tevere”, agli eventi di quella notte - Era l'alba.
Dopo la caduta di Mussolini (il 25 luglio del 1943, ndr ) ero uscito da
Regina Coeli dove ero stato rinchiuso come sovversivo, e, pur essendo
ricercato, facevo avanti e dietro tra Roma e Viterbo, dove guidavo una
formazione partigiana. Saranno state, più o meno, le cinque e mezzo del
mattino, quando mi accorsi che al di là del Tevere, dalla parte del Ghetto,
c'era movimento di truppe e gente che scappava».
E allora cosa fece?
«Vedevo le divise, gli elmetti che rilucevano. Uscii dall'ospedale. Ero in
camice e andai verso il punto dove c'era più trambusto, all'inizio del ponte
che collega il lungotevere all'Isola Tiberina. Fu lì che incontrai Giulio
Sella, guardiano del dormitorio di Santa Maria in Cappella, a Trastevere, un
uomo che aveva già aiutato molti ebrei. Mi disse: “Dammi una mano,
cerchiamo di salvare qualcuno di questi poveracci”».
Quale era la situazione?
«C'era gente che scappava dall'interno del Ghetto. Alcuni, probabilmente, non
erano membri della comunità, ma soldati in borghese che si erano nascosti e
adesso fuggivano. Era chiarissimo, comunque, quello che stava accadendo. Sella
si era già inoltrato nel quartiere e si era reso conto che stavano razziando
gli ebrei. “Razziando”, disse così. Andammo un po' più avanti e vedemmo
la scena».
La gente che veniva caricata sui camion...
«Famiglie intere (i deportati furono, solo in quella notte, 1.022, ndr ).
Quello che mi colpì è che nessuno tentò di ribellarsi. In quel momento
pensavo che forse io, morto per morto, avrei cercato di fare qualcosa. Ma
c'era la minaccia delle armi... Resta il fatto che fu apocalittico vedere
tutte quelle persone, impotenti, che salivano sui camion. Un bambino tentò di
scappare uscendo dalla fila e fu subito riacchiappato mentre i soldati
lanciavano, in tedesco, urla bestiali. Le donne piangevano».
E voi?
«Tornammo verso il ponte e avviammo quante più persone possibile verso
l'ospedale. Non abbiamo mai saputo quanti fossero in realtà gli ebrei. Ma in
quel momento era impossibile fare distinzioni. Chiesi a un certo fratel
Raimondo, un prete, di nascondere tutti. Furono messi in un ambulatorio. Il
primario, Giovanni Borromeo, in quel momento non c'era, ma sapevo che sarebbe
stato d'accordo, perché aveva già ricoverato diversi ebrei nei reparti
facendoli passare per malati».
Cosa pensò in quel momento?
«Che quelli catturati sarebbero morti e che tutta la vicenda era assurda. Il
rastrellamento arrivò inatteso. Il 28 settembre gli ebrei romani avevano
versato cinquanta chili d'oro ai tedeschi come richiesto dal comandante
Herbert Kappler e si sentivano, in qualche modo, al riparo. Tra l'altro il
rastrellamento era in palese contrasto con il fatto che Roma fosse stata
dichiarata ”Città aperta”».
E i rifugiati del Fatebenefratelli? Come finirono?
«Quella mattina stessa tornai nel viterbese. Restai fuori alcuni giorni.
Seppi poi da Sella che una parte furono ricoverati, mentre altri erano stati
nascosti nel Palazzo della Cancelleria (vicino a piazza Farnese) e nel
dormitorio di Santa Maria in Cappella, dietro a via dei Vascellari. Si
salvarono tutti. Quando rientrai in ospedale, mi dissero della loro
riconoscenza per Borromeo, il primario. La decisione di tenerli in corsia, in
fondo, l'aveva presa lui, dopo essersi consultato con il cardinale vicario,
Marchetti-Selvagiani. L'ospedale, non bisogna dimenticarlo, è religioso ed
era stato sentito anche il Vaticano. Racconto oggi queste cose solo perché
credo che l'ottanta per cento dei protagonisti non ci sia più. Non mi sono
mai piaciuti né i premi né le medaglie. Ma certi fatti sono storici ed è
giusto che la città li conosca, per non dimenticare mai la tragedia di quella
notte».
Alle ore 13,30 il treno fu dato in consegna al macchinista Quirino Zazza.
Costui apprese quasi subito che nei carri bestiame "erano racchiusi"
- così si esprime una sua relazione- "numerosi borghesi promiscui per
sesso e per età, che poi gli risultarono appartenenti a razza ebraica".
Il treno si mosse alle 14. Una giovane che veniva da Milano per raggiungere i
suoi parenti a Roma, racconta che a Fara Sabina (ma più probabilmente a Orte)
incrociò il "treno piombato", da cui uscivano voci di purgatorio.
Di là dalla grata di uno dei carri, le parve di riconoscere il viso di una
bambina sua parente. Tentò di chiamarla, ma un altro viso si avvicinò alla
grata, e le accennò di tacere. Questo invito al silenzio, a non tentare più
di rimetterli nel consorzio umano, è l’ultima parola, l’ultimo
segno di vita che ci sia giunto da loro.
Nei pressi di Orte, il treno trovò un semaforo chiuso e dovette fermarsi per
una decina di minuti. "A richiesta dei viaggiatori invagonati"- è
ancora il macchinista che parla - alcuni carri furono sbloccati perchè
"chi ne avesse bisogno fosse andato per le funzioni corporali". Si
verificarono alcuni tentativi di fuga, subito repressi con una nutrita
sparatoria.
A Chiusi, altra breve fermata, per scaricare il cadavere di una vecchia,
deceduta durante il viaggio. A Firenze il signor Zazza smonta, senza essere
riuscito a parlare con nessuno di coloro a cui aveva fatto percorrere la prima
tappa verso la deportazione. Cambiato il personale di servizio, il treno
proseguì per Bologna.
Né il Vaticano, né la Croce Rossa, né la Svizzera, né altri stati neutrali
sono riusciti ad avere notizie dei deportati. Si calcola che quelli del 16
ottobre ammontino a più di mille, ma certamente la cifra è inferiore al
vero, perché molte famiglie furono portate via al completo, senza che
lasciassero traccia di sé, né parenti o amici che ne potessero segnalare la
scomparsa.
Novembre 1944
(da Giacomo Debenedetti, 16 ottobre 1943, pp. 62-64).
Già da qualche anno la situazione per gli ebrei locali era tragica dal punto
di vista materiale e piena di disagio dal punto di vista morale. A partire dal
settembre del 1938 infatti, quando da parte del governo fascista erano state
emanate le leggi antriebraiche, regnava l'insicurezza e l'inquietudine: i
bambini e gli adolescenti non avevano la possibilità di frequentare la scuola
pubblica, i capofamiglia di prestare la loro opera negli uffici della pubblica
amministrazione, nella scuola e nelle università, erano impediti nelle loro
attività, che fossero imprenditori o venditori ambulanti. Gli ebrei erano
stati radiati dall'esercito, dagli albi professionali, dalle banche, dalle
imprese di interesse pubblico. I matrimoni con cattolici erano proibiti. Tutto
ciò avveniva nel quadro di una campagna di stampa diffamatoria e umiliante
cui davano manforte anche ambienti colti e universitari.
La legislazione antiebraica, che non aveva certo molto da invidiare quanto a
durezza e puntiglio a quella messa in atto dalla Germania nazista, fu
accompagnata da una miriade di piccole ordinanze e circolari amministrative
che rese difficile e umiliante anche la vita quotidiana, come quella che
proibiva di pubblicare gli annunci funebri sui giornali, conservare il proprio
nome nell’elenco telefonici, frequentare luoghi di villeggiatura, lavorare
nel mondo dello spettacolo, operare in qualità di ostetrica o infermiera, per
non fare che qualche esempio casuale. E, ancora, via dai libri scolastici
testi scritti da ebrei, via dalle strade nomi di ebrei illustri, via dalle
lapidi di ospedali o asili i nomi di benefattori ebrei.
I cittadini ebrei vennero anche accuratamente schedati, registrati, contati,
da prefetture, questure, amministrazioni comunali, uffici locali del fascio.
Quanto ai profughi stranieri, furono sottoposti a decreto di espulsione e
quando questo si dimostrò impossibile da realizzare per la chiusura delle vie
marittime, il 10 giugno del 1940, furono sottomessi a provvedimento di
internamento in appositi campi o luoghi di prigionia.
Insomma, il quadro fino alla caduta di Mussolini, il 25 luglio 1943, era di
una pesante persecuzione amministrativa, politica e civile da parte dello
stato.
Con l’8 settembre del 1943, l’occupazione tedesca e la creazione della
Repubblica Sociale Italiana (RSI), la persecuzione antiebraica subì una
decisa svolta verso l’assassinio. Le prime violenze antiebraiche furono
messe in atto sul Lago Maggiore e a Merano a metà settembre, ma la vera e
propria estensione, dopo gli altri paesi occupati, della politica della “soluzione
finale della questione ebraica” fu praticata a partire dal 26 settembre 1943
a Roma.
In tale data, il comandante della Gestapo a Roma Herbert Kappler convocò il
presidente dell’Unione delle Comunità Israelitiche, Dante Almansi e il
Presidente della Comunità Israelitica di Roma Ugo Foà per comunicare loro l’imposizione
di una taglia di 50 chili di oro da versare entro 36 ore, pena la deportazione
di 200 membri della comunità stessa.
Dopo un'affannosa corsa contro il tempo per raccogliere il prezzo del
riscatto, la somma fu consegnata, con la remota speranza per gli ebrei che
nulla di peggio sarebbe accaduto loro. Invece, proprio il giorno dopo il
pagamento del riscatto, il 29, i tedeschi irruppero nei locali della comunità
portando via carte, schedari e denaro contante. II 13 ottobre successivo
furono le due biblioteche, del Collegio rabbinico e della comunità, a
ricevere una sgradita visita, culminata nella rapina di preziosi libri
antichi.
Nell’ambito dello Stato nazista, il compito di affrontare e risolvere la
cosiddetta questione ebraica fu affidato, in ogni paese occupato, alla Gestapo
(Geheime Staatspolizei-Polizia Segreta di Stato) una delle sezioni
dell'Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich (RSHA), e precisamene al suo
Ufficio IVB4, capeggiato da Adolf Eichmann.
A Roma però, la polizia tedesca, da subito alle prese con una situazione
precaria dal punto di vista dell'ordine, non era pronta a tali compiti.
Sicchè da Berlino, all'inizio di ottobre, fu mandato in Italia uno speciale
piccolo distaccamento di polizia all'ordine di uno specialista in retate di
ebrei, Theodor Dannecker.
Egli scatenò il 16 ottobre 1943, con il suo distaccamento, coadiuvato da 365
uomini della polizia tedesca a Roma il grande rastrellamento che ebbe nel
quartiere ebraico, l'antico ghetto, il suo epicentro. Gli arrestati furono
1.035, dopo il rilascio di alcuni prigionieri (perché non ebrei o perché
coniugi o figli di matrimonio misto o perché titolari di nazionalità
neutrale), alla fine rimasero nelle sue mani 1.022 ebrei. II 18 ottobre i
prigionieri, stanchi e disperati, furono trasportati su autofurgoni a uno
scalo ferroviario secondario di Roma (Stazione Tiburtina) e caricati su di un
convoglio formato da 18 carri merci.
Per la prima volta, gli ebrei italiani venivano sottoposti al progetto di
sterminio comunicato alle alte sfere naziste da Reinhard Heydrich a Gross
Wansee (periferia di Berlino) il 20 gennaio 1942 e, dalla primavera
precedente, operativo negli altri paesi occidentali. Nell'ottobre del 1943
infatti 56 convogli carichi di ebrei erano già partiti dalla Francia e 13 dal
Belgio. La destinazione di tutti era il campo di sterminio di Auschwitz in
Alta Slesia (Polonia) dove il regime nazista aveva sistemato impianti per
l'assassinio di massa vieppiù sofisticati: a partire dal marzo 1942 erano
state messe in funzione le camere a gas sistemate in due vecchie case agricole
e dal marzo 1943 i grandi “moderni” edifici, appositamente costruiti che
comprendevano sia locali per asfissiare quotidianamente i deportati, sia
crematori per bruciarne i corpi.
Ad Auschwitz (sottocampo di Birkenau), la morte a ciclo continuo raggiunse una
spaventosa scala industriale: si calcola che tra la primavera del 1942 e la
sospensione dell’assassinio nel novembre del 1944, le vittime ebraiche
furono circa un milione e centomila.
La determinazione del loro numero è molto difficoltosa perché il
procedimento di sterminio era radicale e messo in atto in maniera da non
lasciare nessuna traccia: i convogli pieni di famiglie deportate erano
scaricati sulla rampa di arrivo (nei pressi del campo in un primo tempo e
prolungata all'interno quando il ritmo frenetico degli arrivi lo richiese), le
valigie, i fagotti, tutti gli averi portati in un settore dove venivano
smistati per genere e riciclati: da una parte gli indumenti, da un'altra i
giocattoli, gli occhiali, le scarpe, le protesi, perfino i capelli tagliati ai
nuovi arrivati. Inoltre, documenti di identità venivano bruciati
immediatamente.
I gruppi di ebrei giunti da tutta l’Europa occupata subivano una affrettata
selezione: l’80-85% era avviato direttamente verso la morte tramite camere a
gas, il restante spogliato e tatuato, introdotto nel campo come manodopera
schiava. I corpi degli uccisi erano immediatamente cremati.
Il treno degli ebrei romani giunse sulla banchina dello scalo ferroviario
secondario di Auschwitz la notte del 22 ottobre 1943; qui rimase fermo e
sigillato fino all'alba del giorno dopo. I deportati, dopo un viaggio
particolarmente penoso perché tra loro c’erano decine di bambini di tutte
le età, tormentati dalla fame, dalla sete, dalla sporcizia, dal puzzo dei
corpi rimasti in promiscuità per 5 giorni e 5 notti, subirono la selezione. I
destinati al gas furono ben 839. Alla liberazione, solo 16 persone del
convoglio di Roma furono trovate in vita.
La notizia del rastrellamento del 16 ottobre 1943 giunse immediatamente in
Vaticano dove il giorno stesso il Segretario di Stato, Cardinale Luigi
Maglione, convocò l'ambasciatore tedesco Ernst von Weiszaecker chiedendogli
di "voler intervenire in favore di quei poveretti" e comunicandogli
che "è doloroso oltre ogni dire che proprio a Roma, sotto gli occhi del
Padre comune siano fatte soffrire tante persone unicamente perché
appartengono ad una stirpe determinata...". Weizsaecker domandò allora:
"Che cosa farebbe la Santa Sede se le cose dovessero continuare?",
la risposta di Maglione fu: "la Santa Sede non vorrebbe essere messa
nella necessità di dire la sua parola di disapprovazione". II giorno
dopo, l'ambasciatore riferì ai suoi superiori nei seguenti termini la temuta
reazione vaticana: "...Gli ambienti a noi ostili di Roma approfittano
dell'accaduto per forzare il Vaticano ad uscire dal suo riserbo. E’ noto che
i vescovi delle città francesi dove si erano verificate azioni analoghe hanno
preso nettamente posizione. II Papa nella sua qualità di pastore supremo
della Chiesa e vescovo di Roma non potrà mostrarsi più discreto di
loro..." Oltre ad una ferma lettera di protesta di Monsignor Alois Hudal,
rettore della Chiesa tedesca a Roma, al Generale Stahel, però, l'unica
reazione ufficiale fu il 25-26 ottobre uno sbiadito fondo su
"L'Osservatore romano" con accenni quanto mai vaghi alla
deportazione degli ebrei romani, in maggioranza già assassinati due giorni
prima ad Auschwitz.
L’ambasciatore, il 28 ottobre inviò di conseguenza al Ministro degli Esteri
tedesco un tranquillizzante messaggio nel quale diceva: "...si può
ritenere che la questione spiacevole per il buon accordo tedesco-vaticano sia
liquidata...".
Gli arresti a Roma continuarono, pur se in maniera meno sistematica e
repentina, anche dopo la grande razzia.
II "distaccamento operativo" si spostò verso Firenze, entro la fine
di novembre le maggiori città del Nord avevano subito una “judenaktion”.
Dannecker organizzò, dopo quello da Roma, altri due trasporti: per il
convoglio partito il 9 novembre 1943, gli ebrei rastrellati furono portati
dalle locali carceri alle stazioni ferroviarie, rispettivamente di Firenze e
di Bologna; per il convoglio partito il 6 dicembre 1943, il carico avvenne a
Milano, Verona e Trieste. Per tutto il periodo in cui fu lui a organizzare i
carichi, di fatto, le carceri delle grandi città funzionarono come luoghi di
transito per i deportandi.
Alla fine di dicembre del 1943 egli giunse con i suoi uomini a Verona dove
terminò il suo compito di organizzatore esperto della <<caccia all'ebreo>>.
Compito cui fu peraltro nuovamente chiamato di lì a poco, per continuare la
sua carriera omicida, in Ungheria.
Quanto alle vicende della neo fondata Repubblica Sociale Italiana tra
settembre e dicembre del 1943: Roma fu tolta a Mussolini che l'avrebbe voluta
ancora come sua capitale, l'amministrazione fascista fu interamente spostata
al nord, sulle rive del lago di Garda, secondo gli ordini impartiti da Hitler
al Plenipotenziario del Reich, Rudolf Rahn. La stessa ambasciata tedesca prese
stanza al nord nelle vicinanze del governo fascista.
Fin dall'inizio fu data pubblicità al progetto di un' Assemblea Costituente.
In realtà, ci si limitò a convocare a Verona per il 14 novembre del 1943 i
delegati delle organizzazioni del partito fascista dell'Italia settentrionale
chiamati ad approvare un manifesto politico già predisposto. Tale manifesto,
detto Carta di Verona, fu fatale per gli ebrei che erano già riusciti a
sfuggire ai rastrellamenti degli uomini di Dannecker perché, di fatto, il
governo della RSI ne reclamava ora la gestione. Consisteva in 18 punti
regolanti materie istituzionali, giuridiche, sociali. Al punto 7 recitava “gli
appartenenti alla razza ebraica sono stranieri, durante questa guerra
appartengono a nazionalità nemica". Con questa dichiarazione la RSI
legittimava sul piano formale la persecuzione antiebraica già avviata dai
tedeschi, mentre sul piano sostanziale avrebbe, come si vedrà, impegnato la
sua polizia a fornire i contingenti per la deportazione.
Fu dato immediato seguito al testo ideologico e programmatico della Carta di
Verona con l'ordinanza del Capo della polizia n. 5 che disponeva l'arresto e
l'internamento di tutti gli ebrei e il sequestro dei loro beni:
"1. Tutti gli ebrei, anche se discriminati, a qualunque nazionalità
appartengano e comunque residenti nel territorio nazionale debbono essere
inviati in appositi campi di concentramento. Tutti i loro beni, mobili e
immobili, devono essere sottoposti a immediato sequestro in attesa di essere
confiscati nell'interesse della RSI, la quale li destinerà a beneficio degli
indigenti, sinistrati dalle incursioni aeree nemiche.
2. Tutti coloro che, nati da matrimonio misto, ebbero in applicazione delle
leggi razziali vigenti il riconoscimento di appartenenza a razza ariana,
debbono essere sottoposti a speciale vigilanza dagli organi di polizia.
3 . Siano pertanto concentrati gli ebrei in campo di concentramento
provinciale, in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali
appositamente attrezzati".
In virtù di questi gravissimi provvedimenti, tutti gli ebrei in circolazione
erano passibili di arresto, questa volta, da parte delle autorità italiane
che si assunsero il compito di mettere in atto le azioni preliminari volte a
rintracciarli e arrestarli. In effetti nei mesi seguenti, i fermi vennero
attuati direttamente dalle questure della RSI, dopo minuziose ricerche
domiciliari.
Una successiva ordinanza del 10 dicembre 1943, firmata dal Capo della Polizia
Tullio Tamburini, attenuava solo in parte la portata dell'ordine generale di
arresto, esentandone gli anziani oltre i settant'anni e gli ammalati gravi.
Nell'attesa che venisse allestito un grande campo di concentramento, come
prescritto dalla legge, ne furono istituiti di provvisori in edifici di
fortuna come scuole, collegi, castelli abbandonati. Se ne costituì una fitta
rete, di breve durata, ma ugualmente in grado di rifornire i tedeschi del
contingente sufficiente a formare un nuovo grande convoglio verso
Auschwitz-Birkenau, partito da Milano il 30 gennaio del 1944. I prigionieri
erano affluiti nel carcere di San Vittore a Milano, dai campi provinciali di
Calvari di Chiavari, di Bagno a Ripoli, di Bagni di Lucca, di Tonezza del
Cimone, di Forlì ed altri.
La RSI scelse, per istituire il grande e definitivo campo di concentramento
menzionato dalla legge, un terreno agricolo nella frazione di Fossoli, a 5 km
dalla cittadina di Carpi. L'ordine relativo fu impartito dalla Prefettura di
Modena al Podestà di Carpi il 2 dicembre 1943.
Nel frattempo, a Berlino, ci fu una nuova svolta nella gestione della
"questione ebraica" in Italia. Nell'ambito dell'ufficio Eichmann, il
4 dicembre si valutò la nuova situazione venutasi a creare in Italia dopo
l'ordine del governo della RSI di arrestare tutti gli ebrei e le possibilità
che esso offriva "per un lavoro più proficuo che per il passato
relativamente alla questione ebraica". Si decise che le funzioni del
"distaccamento operativo" di Dannecker erano esaurite e che da
allora in poi si sarebbe potuto affidare il compito di deportare gli ebrei a
un ufficio stabile, incaricato di collaborare sistematicamente con la polizia
italiana.
Per tale richiesta di collaborazione appunto alle autorità italiane fu
delegata la normale via diplomatica, cioè l'ambasciata tedesca. L'ulteriore
esecuzione della "soluzione finale" sarebbe stata affidata al nuovo
funzionario addetto, Friedrich Bosshammer facente parte dell'Ufficio Eichmann
a Berlino che sarebbe venuto in Italia in sostituzione di Dannecker.
Bosshammer giunse dunque in Italia agli inizi di febbraio del 1944 creando un
nuovo ufficio aggregato alla sede della Gestapo a Verona. Proprio nei primi
giorni del suo incarico, si recò alla stazione ferroviaria di Verona per un
sopralluogo al convoglio di deportati che era partito da Milano il 30 gennaio.
Con l'apertura dell'Ufficio IVB4, anche l'Italia si uniformava appieno alla
procedura della “soluzione finale” messa in atto negli altri paesi
europei: arresto, concentramento in apposito campo, organizzazione di una
partenza verso Auschwitz una volta raggiunto un numero sufficiente di
prigionieri da spedire. Occorreva dunque per i tedeschi reperire un luogo di
transito da dove esplicare le operazioni di evacuazione in modo sistematico e
ordinato. Giunse a proposito il fatto che il governo italiano, due mesi prima,
avesse scelto Fossoli come campo di concentramento. Verso la fine di febbraio,
la Gestapo-Italia decise di servirsene come campo di transito esautorando la
direzione italiana e istituendone un’altra tedesca agli ordini di Karl Titho.
Fino alla fine di luglio del 1944, Fossoli vide un incessante flusso di
disgraziate famiglie arrestate dovunque. Regnava tra di esse il
disorientamento, la rassegnazione, l'angoscia per le prossime partenze.
Friedrich Bosshammer organizzò tutte le partenze di ebrei da Fossoli: 5 per
Auschwitz-Birkenau, due per Bergen Belsen di persone colà dirette in quanto
titolari di cittadinanza inglese o turca.
Alla fine del luglio 1944 il fronte delle operazioni militari era notevolmente
avvicinato alla zona di Modena, i ponti sul fiume Po erano stati bombardati
dagli alleati.
La Gestapo decise allora di evacuare il campo di transito verso una zona più
sicura e posta geograficamente più a nord. Un nuovo campo venne istituito nei
pressi di Bolzano, in zona Gries dove fu trasferito il personale tedesco di
Fossoli e i prigionieri politici, circa un centinaio. Viceversa, al momento
della chiusura, il 1° agosto 1944, gli ultimi ebrei furono tutti
frettolosamente deportati. Trasportati con automezzi fino al Po al di là del
quale, in mancanza di ponti, furono traghettati con barche. Poichè con questo
ultimo convoglio furono fatti partire anche gli ebrei considerati non
deportabili ( protetti dal fatto di essere figli o coniugi di matrimonio
misto), alla stazione ferroviaria di Verona le destinazioni furono suddivise
tra i campi di Ravensbruck, Bergen Belsen, Buchenwald e Auschwitz.
Bosshammer, terminata con la liquidazione di Fossoli la sua opera di
responsabile dell'azione antiebraica in Italia, passò ad altro servizio.
Auschwitz però continuò a ricevere ebrei italiani, provenienti dal campo di
transito di Bolzano e dal luogo che fungeva da campo di transito per le
regioni nord-orientali dell'ltalia chiamate Zona di Operazione Litorale
Adriatico, il campo della Risiera di San Sabba presso Trieste. L'ultimo
convoglio arrivato ad Auschwitz fu quello partito da Bolzano il 24 ottobre
1944. Con esso si chiude la storia della deportazione degli ebrei dall'ltalia
verso lo sterminio, ma non si conclude la triste storia delle deportazioni
poiché altre ve ne furono e fino al tardo febbraio del 1945, dirette verso il
campo di concentramento di Ravensbrueck e Flossenburg geograficamente poste
più lontano dalle linee di avanzata sovietica, rispetto ad Auschwitz liberato
il 27 gennaio del 1945.
Il bilancio della politica antiebraica messa in atto in Italia e’ di 6.806
persone arrestate e deportate (di cui 5.969 deceduti) e di 322 morti in patria
per eccidi, maltrattamenti o suicidi.