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Giovanni Francesco Straparola
Le piacevoli notti

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  • LIBRO PRIMO Orfeo dalla Carta alle piacevoli ed amorose donne, salute.
    • comincia il libro delle favole ed enimmi
      • FAVOLA IV. Tebaldo, prencipe di Salerno, vuole Doralice, unica sua figliuola, per moglie; la quale, perseguitata dal padre, capita in Inghilterra, e Genese la piglia per moglie, e con lei ha doi figliuoli, che da Tebaldo furono uccisi: di che Genese re si vendicò.
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FAVOLA IV.

Tebaldo, prencipe di Salerno, vuole Doralice, unica sua figliuola,

per moglie; la quale, perseguitata dal padre, capita in Inghilterra,

e Genese la piglia per moglie, e con lei ha doi figliuoli, che da Tebaldo

furono uccisi: di che Genese re si vendicò.

[Eritrea:]

— Quanta sia la potenza d’amore, quanti li stimoli della corrottibile carne, penso che non sia alcuna di noi che per isperienza provato non l’abbia. Egli, come potente signore, regge e governa senza spada a un solo cenno lo imperio suo: come per la presente favola, che raccontarvi intendo, potrete comprendere.

Tebaldo, prencipe di Salerno, amorevoli donne, come piú fiate udii dai nostri maggiori ragionare, ebbe per moglie una prudente e accorta donna e non di basso legnaggio, e di lei generò una figliuola che di bellezza e di costumi tutte le altre salernitane donne trapassava. Ma molto meglio a Tebaldo sarebbe stato, se quella avuta non avesse; perciò che avenuto non li sarebbe quello che gli avenne. La moglie, giovene di anni ma vecchia di senno, venendo a morte, pregò il marito, che cordialissimamente amava, che altra donna per moglie prendere non dovesse, se l’anello, che nel dito portava, non stesse bene nel dito di colei che per seconda moglie prendere intendeva. Il prencipe, che non meno amava la moglie che la moglie lui, giurò sopra la sua testa di osservare quanto ella gli aveva commesso. Morta la bella donna ed orrevolmente sepolta, venne in animo a Tebaldo di prender moglie; ma rimembrandosi della promissione fatta alla morta moglie, lo suo ordine in maniera alcuna pretermettere non volse. Giá era divulgato d’ogn’intorno come Tebaldo, prencipe di Salerno, voleva rimaritarsi; e la fama pervenne alle orecchi di molte puncelle, le quali e di stato e di virtú a Tebaldo non erano inferiori. Ma egli, desideroso di adempire la volontá della morta moglie, a tutte quelle puncelle, che in moglie offerte gli erano, volse primieramente provare se l’anello della prima moglie le conveniva; e non trovandone veruna a cui l’anello convenisse, perciò che ad una era troppo largo, a l’altra troppo stretto, a tutte a fatto diede ripulsa.

Ora avenne che la figliuola di Tebaldo, Doralice per nome chiamata, desinando un giorno col padre e avendo veduto sopra la mensa l’anello della morta madre, quello nel dito si mise; e voltatasi al padre, disse: — Vedete, padre mio, come lo anello della madre mia mi si conviene al dito. — Il che veggendo, il padre lo confirmò. Ma non stette molto tempo che un strano e diabolico pensiero entrò nel cuore a Tebaldo: di avere Doralice, sua figliuola, in moglie; e lungamente dimorò tra il e ’l no. Pur vinto dal diabolico proponimento e acceso della sua bellezza, un giorno a sé la chiamò, e le disse: — Doralice, figliuola mia, vivendo tua madre ed essendo nell’estremo della sua vita, caldamente mi pregò che niun’altra per moglie prender dovessi, se non colei a cui convenisse l’anello che tua madre vivendo in dito portava; ed io sopra il capo mio con giuramento le promisi di far quanto era il suo volere. Laonde, avendo io isperimentate molte puncelle, né trovandone alcuna a cui l’anello materno meglio convenga che a te, deliberai nella mente mia al tutto di averti per moglie; perciò che cosí facendo io adempirò il voler mio, e non sarò manchevole a tua madre della promessa fede. — La figliuola, che era non men onesta che bella, intesa la mala intenzione del perverso padre, tra sé stessa forte si turbò; e considerato il malvagio suo proponimento, per non contaminarlo e addurlo a sdegno, nulla allora li volle rispondere, ma, dimostrandosi allegra ne l’aspetto, da lui si partí. Né avendo alcuno, di cui meglio si fidasse, che la sua balia, a lei, come a fontana d’ogni sua salute, per consiglio liberamente ricorse. La quale, inteso il fellone animo del padre e pieno di mal talento, e conosciuta la costante e forte intenzione della giovanetta, atta piú tosto a sostenere ogni gran pena che mai consentire al furor del padre, la racconfortò promettendole aiuto, acciò che la sua virginitá con disonore violata non fusse. La balia, tutta pensosa a ritrovare il rimedio che alla figliuola di salute fusse, saltava ora in un pensiero ora nell’altro, né trovava modo col quale assicurar la potesse; perciò che il fuggire ed allontanarsi dal padre molto le aggradiva, ma la temenza dell’astuzia sua e il timore che non l’aggiungesse e uccidesse, forte la perturbava. Ora andando la fedel balia freneticando nella mente sua, entrovvi un nuovo pensiero nell’animo: che è questo che intenderete.

Era nella camera della morta madre uno armaio bellissimo e sottilissimamente lavorato, nel quale la figliuola le sue ricche vestimenta e care gioie teneva; né vi era alcuno che aprire lo sapesse, se non la savia balia. Costei nascosamente trasse le robbe e gioie che vi erano dentro, e posele altrove; e mise nello armaio un certo liquore di tanta virtú, che chiunque ne prendeva un cucchiaro, ancor che picciolo, molto tempo senza altro cibo viveva; e chiamata la figliuola, dentro la chiuse, essortandola che entro dimorasse fino a tanto che Iddio le porgesse migliore e piú lieta fortuna, e che il padre dal fiero proponimento si rimovesse. La figliuola, ubidiente alla cara balia, fece quanto da lei imposto le fu. Il padre, non raffrenando il concupiscibile appetito, né rimovendosi dalla sfrenata voglia, piú volte della figliuola addimandò; e non trovandola, né sapendo dove ella fusse, s’accese di tanto furore, che la minacciò di farla vituperosamente morire.

Non erano ancora trapassati molti giorni, che Tebaldo una mattina ne l’apparir del sole entrò nella camera dove l’armaio posto era; e vedendoselo innanzi gli occhi, né potendo sofferire di vederlo, comandò con mano che indi levato fusse e altrove portato e venduto, acciò che ei dagli occhi levar si potesse questa seccaggine. Li serventi, molto presti a’ comandamenti del lor signore, preserlo sopra le spalle e in piazza lo portorono. Avenne che in quel punto aggiunse in piazza un leale e ricco mercatante genovese; il quale, avendo adocchiato l’armaio bello e riccamente lavorato, di quello fortemente s’innamorò, deliberato tra sé stesso di non lasciarlo per danari, quantunque ingordo pregio addimandato li fusse. Accostatosi adunque il genovese al servente che dello armaio cura aveva, e convenutosi del pregio con esso lui, lo comperò; e messolo in spalla ad uno bastaio, alla nave lo condusse. Alla balia, che ogni cosa veduta aveva, questo molto piacque, quantunque della perduta figliuola tra sé medesima si dolesse molto. Ma pur si racconsolava alquanto; perciò che, quando duo gran mali concorreno, il maggiore sempre si dee fuggire.

Il mercatante genovese, levato da Salerno con la nave carica di preciose merci, pervenne all’isola di Britannia, oggidí chiamata Inghilterra; e fatta scala ad uno luoco dove era un’ampia pianura, vide Genese, giá poco tempo fa creato re, il quale, velocissimamente correndo per la spiaggia de l’isola, seguitava una bellissima cerva che per timore giá s’aveva gittata nelle marittime onde. Il re, giá stanco ed affannato per l’aver lungamente corso, si riposava; e veduta che ebbe la nave, al patrone dimandò da bere. Il patrone, fingendo di non conoscere il re, amorevolmente l’accettò, facendoli quelle accoglienze che se gli convenevano; e con ingegno ed arte tanto operò, che lo fece salire in nave. Al re, che giá veduto aveva il bello e ben lavorato armaio, accrebbe tanto desiderio di esso, che un’ora mille li pareva di averlo. Onde addimandò il patrone della nave quanto l’estimava; risposo gli fu, assai pregio valere. Il re, invaghito molto di preciosa cosa, non si parti di che col mercatante si convenne del pregio; e fattosi recare il danaro, e sodisfatto il mercatante pienamente del tutto, e preso da lui il commiato, al palazzo lo fece portare e nella sua camera porre.

Genese, per esser troppo giovane, non aveva ancora presa moglie, ed ogni la mattina per tempo a caccia andare molto si dilettava. Doralice, figliuola di Tebaldo, che nascosa si stava ne l’armaio che nella camera di Genese posto era, udiva ed intendeva ciò che nella camera del re si faceva; e pensando a’ passati pericoli, cominciò di qualche buona sorte sperare. E tantosto che il re era della sua camera partito ed alla caccia andato secondo il costume suo, la giovanetta usciva dell’armaio, e con grandissimo magistero apparecchiava la camera, scopandola, distendendo il letto, acconciando i capoletti e ponendoli sopra una coltre lavorata a certi compassi di perle grossissime con duo guanzali ornati a maraviglia. Appresso questo, la bella giovane pose sopra il vago letto rose, viole ed altri odoriferi fiori, mescolati insieme con uccelletti cipriani ed altri odori che piacevolmente olivano ed al cerebro molto erano confortativi. La giovane piú e piú volte, senza che mai da alcuno fusse veduta, questo ordine tenne. Il che a Genese re era di sommo contento; perciò che, quando egli veniva dalla caccia ed entrava nella camera, li pareva esser tra tutte le speziarie che mai nacquero in Oriente.

Volse un il re dalla madre e dalle damigelle intendere, chi era colei gentilesca e di alto animo, che ornata ed odorificamente gli apparecchiava la camera. A cui risposo fu che non sapevano cosa alcuna; perciò che, quando ad acconciare il letto andavano, tutto di rose e di viole coperto e di soavi odori profomicato lo trovavano. Il che il re intendendo, deliberò al tutto di sapere onde procedeva la causa, e finse di andare una mattina per tempo ad uno castello, dalla cittá dieci miglia lontano; e chetamente nella camera si nascose, mirando fiso per una fissura e aspettando quello ch’avenir potesse. E non stette guari che Doralice piú bella che ’l chiaro sole de l’armaio uscí fuori; e messasi a scopare la camera, a drizzare li tappeti e ad apparecchiare il letto, ogni cosa, come ella era solita di fare, diligentemente acconciò. Avendo adunque la gentil poncella giá pienamente compiuto il degno e laudevole ufficio, volse nello armaio entrare; ma il re, che intentamente avea veduto il tutto, le fu presto alle spalle, e presala per mano e vedutala bella e fresca come un giglio, la dimandò chi ella era. La giovane tutta tremante disse che era unica figliuola di un prencipe, il cui nome non sapeva per esser giá molto ne l’armaio nascosa; ma la cagione di ciò dirle non volse. Il re, inteso il tutto, con consentimento della madre in moglie la prese, e con essa lei generò duo figliuoli.

Tebaldo, continovando nel suo malvagio e perfido volere, non trovando la figliuola che piú giorni cercata e ricercata aveva, s’imaginò che nello armaio venduto nascosa si fusse, e uscitane fuori, andasse per lo mondo errando. Laonde, vinto dall’ira e dal sdegno, deliberò provar sua ventura, se in luoco alcuno trovare la potesse. E vestitosi da mercatante e prese molte gioie e lavorieri tutti d’oro a maraviglia lavorati, da Salerno isconosciuto si partí; e scorrendo per diversi paesi, s’abbattè in colui che prima l’armaio comperato aveva, e dimandollo se di quello era riuscito in bene, ed alle mani di chi era pervenuto. A cui il mercatante rispose averlo venduto al re d’Inghilterra, e averne guadagnato altrettanto di quello che gli era costo. Il che intendendo, Tebaldo si rallegrò, e verso Inghilterra prese il cammino; e aggiunto, ed entrato nella cittá regale, pose per ordine alle mura del palagio le gioie e lavorieri, tra’ quai erano fusi e rocche, e gridare incominciò: — Fusi e rocche, donne! — Il che udendo una delle damigelle, alla finestra si puose; e veduto ch’ella ebbe il mercatante con le care robbe, corse alla reina, e dissele che per la strada era uno mercatante con rocche e fusi d’oro, i piú belli ed i piú ricchi che si vedessero giammai. La reina comandò che su in palagio venire lo facesse; ed egli, asceso sopra le scale e venuto in sala, dalla reina non fu conosciuto, perciò che ella del padre piú non si pensava: ma ben il mercatante conobbe la figliuola. La reina adunque, veduti i fusi e le rocche di maravigliosa bellezza, addimandò al mercatante quanto ciascuna di esse apprecciava. — Ed egli — Molto, — rispose; ma quando fosse aggrado a Vostra Altezza ch’io dormisse una notte nella camera de’ duo figliuoli vostri, io in ricompensamento le darei tutte queste merci in dono. — La signora, semplicetta e pura, non avendo del mercatante alcuno sinistro pensiero, a persuasione delle sue donzelle li consentí. Ma prima che messo fusse dalle serventi a riposare, le donzelle con la reina determinorono di dargli una bevanda di alloppiato vino. Venuta la notte, e fingendo il mercatante di esser stanco, una delle damigelle lo menò nella camera dei figliuoli del re, dove era apparecchiato un bellissimo letto; e innanzi che lo ponesse a riposare, disse la donzella: — Padre mio, avete voi sete? — A cui rispose: — , figliuola mia; — e preso un bicchiere che d’argento pareva, li porse l’alloppiato vino. Ma il mercatante, malizioso ed astuto, prese il bicchiere, e fingendo di bere, tutto il vino sopra le vestimenta sparse, ed andossene a riposare.

Era nella camera de’ fanciulli un usciolo, per lo quale nella stanza della reina entrare si poteva. Il mercatante nella mezza notte, parendoli ogni cosa cheta, tacitamente nella camera della reina entrò: e accostatosi al letto, le tolse un coltellino che per l’adietro adocchiato aveva che la reina al lato portava; e gitosene alla culla dov’erano i fanciulli, ambeduo uccise, e subito il coltellino, cosí sanguinoso, nella guagina ripose; e aperta una finestra, si calò giú con una fune tutta nodosa: e la mattina nell’aurora andatosene ad una barbaria, si fece radere la lunga barba, acciò che conosciuto non fusse: e vestitosi de nuovi panni larghi e lunghi, andò per la cittá. Le balie sonnogliose, all’ora solita destatesi per allattare i bambini e postesi su le culle, trovorono i fanciulli uccisi. Laonde cominciorono a gridar forte e dirottamente a piagnere, squarciandosi i capegli e stracciandosi i panni dinanzi e mostrando il petto. Venne subito la trista nova al re ed alla reina, i quali, scalci ed in camicia, corsero allo scuro spettaculo; e vedendo li figliuoli morti, amaramente piansero.

Giá per tutta la cittá era sparsa la fama dell’uccisione de li duo bambini, e come era giunto in la cittá un famoso astrologo, il quale secondo i vari corsi delle stelle sapeva le cose passate e prediceva le future. Ed essendo alle orecchie del re pervenuta la gran fama sua, il re lo fece chiamare; e venuto al palagio, si appresentò a Sua Maestá. E dimandato dal re se egli saprebbe dirli chi li fanciulli uccisi avesse, li rispose saperlo. E accostatosi all’orecchio del re, secretamente li disse: — Sacra Maestá, fa che tutti gli uomini e tutte le donne che coltello al lato portano e sono nella tua corte, si appresentino al tuo conspetto: ed a chi troverai il coltello nella guagina ancora di sangue macchiato, quello sará de’ tuoi figliuoli stato il vero omicida. — Onde per comandamento del re tutti i cortigiani comparsero dinanzi a lui: il quale con le propie mani ad uno ad uno cercare li volse, guatando con diligenza se i lor coltelli erano cruentati; né trovandone alcuno che di sangue bruttato fusse, ritornò allo astrologo, e raccontolli tutto quello che fatto avea, né alcuno restare che ricercato non fusse, sol la vecchia madre e la reina. A cui lo astrologo disse: — Sacra Maestá, cercate bene, né di niuno abbiate rispetto, perciò che senza dubbio il malfattore trovarete. — Il re, cercata la madre e nulla trovandole, chiamò la reina; e presa la guagina che al lato ella teneva, trovò il coltellino tutto bruttato di sangue. Il re, d’ira e di furore acceso, veduto lo apertissimo argomento, contro la reina si volse, e dissele: — Ahi malvagia e dispietata femina, nemica delle propie carni! Ahi traditrice de’ propi figliuoli! Come hai tu potuto mai sofferire di bruttar le mani ne l’innocentissimo sangue di questi bambini? Io giuro a Dio che ne patirai la penitenza di tanta sceleraggine commessa. — E quantunque il re fusse infiammato di sdegno e desideroso allora di vendicarsi con vituperosa e disonesta morte, nientedimeno, acciò che ella sentisse maggiore e piú lungo tormento, gli entrò un nuovo pensiero ne l’animo; e comandò che la reina fusse spogliata e, cosí ignuda, sino alla gola in terra sepolta e con buoni e delicati cibi nodrita, acciò che, cosí lungamente vivendo, i vermi le carni sue divorassino, ed ella maggiore e piú lungo supplicio ne sentisse. La reina, che per l’addietro molte altre cose aveva miseramente sostenute, conoscendo l’innocenza sua, con paziente animo la grandezza del supplicio sofferse.

L’astrologo, intendendo la reina, come colpevole, esser condannata a crudelissimi tormenti, molto si rallegrò, e presa licenza dal re, assai contento d’Inghilterra si partí; e giunto celatamente al suo palagio, raccontò alla balia della figliuola tutto ciò che gli era avenuto, e come il re a grave supplicio aveala condannata. Il che intendendo, la balia dimostrò fuori segni di letizia, ma dentro fuor di modo si ramaricava; e mossa a pietá della tormentata figliuola e vinta dal tenero amore che le portava, di Salerno una mattina per tempo si partí, e tanto e notte sola cavalcò, ch’al regno d’Inghilterra aggiunse. Laonde, salita su per le scale del palagio, trovò il re che in una spaziosa sala audienza prestava; e inginocchiatasi a’ piedi del re, li addimandò una secreta audienza di cose che all’onore della corona aspettavano. Il re, abbracciatala, la fece in piè levare, e presala per mano, licenziò la brigata e con lei sola si pose a sedere. La balia, ben instrutta delle cose occorse, riverentemente disse: — Sappi, sacra Corona, che Doralice, tua moglie e mia figliuola: non che io l’abbia portata in questo misero ventre, ma per averla lattata e nodrita con queste poppe: è innocentissima del peccato per lo quale fu da te a cruda morte miseramente dannata. E quando minutamente inteso averai e tocco con mani, chi fu l’empio omicida, e la cagione per cui egli si mosse ad uccidere i tuoi figliuoli, rendomi certa che tu, mosso a pietá, subito da lunghi ed acerbi tormenti la libererai. E se in ciò sarò bugiarda, mi offero di sofferire quella istessa pena che ora la misera reina patisce. — E cominciando da capo, fino alla fine li raccontò a punto a punto tutto quello che era avenuto. Il re, intesa intieramente la cosa, diede fede alle parole sue, ed immantinente fece la reina, che era piú morta che viva, della sepultura trarre; e fattala con diligenza medicare e ottimamente ricoverare, in breve tempo si riebbe.

Il re dopo fece uno apparecchiamento grande per tutto il suo regno, e raunò un potentissimo essercito e lo mandò a Salerno, dove non stette molto tempo che fe’ della cittá conquisto; e Tebaldo, con torte funi i piedi e le mani strettamente legate, in Inghilterra fu prigione condotto. E volendo il re aver maggior certezza del giá commesso fallo, severamente contra lui processe; e messolo al martorio, diedegli delle buone. Ma egli, senza essere piú collato, il tutto ordinatamente confessò; e il giorno sequente con quattro cavalli sopra un carro per tutta la cittá menato e con tenaglie affocate attanagliato, come Gano di Maganza, lo fece squartare, dando le sue carni a’ rabbiosi cani. E cosí il tristo e scelerato Tebaldo miseramente finí la vita sua, ed il re e la reina Doralice per molti anni felicemente si goderono insieme, lasciando figliuoli dopo la morte loro. —




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